MADRE, la recensione del commovente film di Rodrigo Sorogoyen

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Madre
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Marta Nieto in Madre
Basta poco a volte per dar vita a un buon film. Un piano sequenza, ad esempio, che lascia tutto relegato al fuori campo condensando la paura, il terrore, l’imminente perdita allo squillo di un telefono. L’incipit di Madre, film diretto da Rodrigo Sorogyen e presentato a Venezia 76 nella sezione “Orizzonti” è un pugno sferrato allo stomaco con una forza disumana. Non vediamo, ma sentiamo, l’ultima telefonata che legherà il piccolo Ivan alla mamma prima che questi scomparirà nel nulla all’età di sei anni. Elena (un’intensa Marta Nieto) da quell’inizio improvviso e dilaniante, viene sottratta dal ruolo di madre con cui viene etichettata dal titolo del film; sarà una madre simbolica, madre di un ricordo, di un fantasma, di un bambino che cresce nell’eterno oblio.
Vaga Elena; lo fa per dieci anni. Cammina esausta sulle spiagge della Francia cercando negli occhi degli altri quelli del piccolo Ivan. Incrocia per pochi secondi il proprio sguardo con quello altrui, leggendo la loro anima nella speranza di ritrovare frammenti del proprio figlio perduto. Ci mette dieci anni Elena per incontrare una vana illusione negli occhi allegri di Gregory (Jules Porier). Il giovane sedicenne diventa per la donna un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi, affidando ai suoi scherzi, alla sua voglia di vivere da tipico adolescente, il sogno di aver ritrovato il proprio bambino.
Ma Gregory non è Ivan; lo sa bene Elena, sebbene non voglia accettarlo. Ne è cosciente quando ossessivamente lo segue tra la folla, lo accompagna a casa, gli porge una bibita in un rapporto a metà strada tra seduzione e materno affetto. Quello che si insatura tra i due personaggi è un legame ambiguo, ossessivo, che ben dimostra l’incapacità di una madre di accettare la perdita del proprio ruolo e di essere pronta a tutto, anche di abbracciare l’amore per un figlio non proprio, pur di tornare a rivivere quei momenti perduti, quelle carezze a lei tolte, quella voglia di vivere. Un amore ben più empatico e commovente di quello portato sullo schermo da Katrin Gebbe in Pelikanblut.

Madre

Elena vive un viaggio che dall’inferno della perdita la porterà a un ultimo, disperato, abbraccio catartico con cui accettare (forse) il suo non più ruolo di madre. Un itinerario della memoria e della rassegnazione seguito con enfasi empatica da Sorogyen. Quelle messe in campo dal regista sono riprese distorte, giocate su grandangoli che schiacciano la protagonista verso il buio dell’assenza e da inquadrature angolate che fanno della donna uno spettro viandante alla ricerca della propria rassegnazione.
I piani americani permettono agli altri personaggi di condividere per pochi secondi l’inquadratura con la donna, la quale, chiusa nel proprio dolore, non accetta la loro vicinanza respingendoli. Lo stesso Gregory dovrà faticare per avvicinarsi a Elena, restarle vicino, mentre l’obiettivo della cinepresa insegue da vicino le loro fughe tra abbandoni e ritrovamenti.
È un film sfuggente Madre; dopo la potenza del piano-sequenza iniziale, lo spettatore viene bombardato di immagini ed eventi carichi di ambiguità, che volutamente avvolgono la pellicola di dubbi e domande senza risposte. Ma è proprio in questa difficoltà di lettura che si ritrova quel senso di perdita che travolge e annienta la protagonista. Lo stato di abbandono che la accompagna giorno dopo giorno supera i confini diegetici per invadere lo stato passivo di visione spettatoriale, legando per due ore personaggio fittizio a essere vivente, madre per finta a madri (o padri) reali.
Corpo e anima di Madre rimane la performance di Marta Nieto. Il suo fisico asciutto, quegli occhi espressivi, denotano una forza materna vestita di fragilità. È una sopravvissuta la sua Elena, e l’attrice è capace di comunicare questa voglia di rialzarsi dopo ogni caduta attraverso un semplice movimento della mano o della testa.
È uno spectrum emozionale dalle mille sfumature, Madre. Un film commovente, capace di ritrovare la propria strada dopo un momentaneo crollo narrativo che farà pensare, odiare e poi amare di nuovo la figura di Elena e la sua ricerca del suo essere madre.