
Un uomo emerge dalla cenere. È un profugo Siriano. Ha abbandonato la famiglia e sta cercando fortuna in Finlandia.
Un altro uomo lascia la moglie. È un cittadino regolare. Ha lasciato la sua casa per ricominciare una nuova vita. Gioca a poker, ha un colpo di fortuna, e decide di aprire un ristorante.
L’altro volto della speranza è questo: un ritratto malinconico dell’umanità perduta. La ricerca della felicità, tanto decantata dalla cultura statunitense, diventa per Kaurismaki il centro psicologico del film.
I fasci di luce mettono in evidenza i volti, in particolare gli occhi, unico vero strumento di comunione emotiva. L’ambiente, i mobili, le finestre, i rumori, sembrano continuamente puntare come frecce sugli esseri umani. È l’umanità, infatti, il primo punto di interesse del lungometraggio.
L’altro volto della speranza possiede la forza straordinaria del punto di vista. Nell’epoca contemporanea il cinema ha ormai già parlato di tutto, secondo ogni sfumatura e opinione. Riuscire a immortalare su pellicola un’umanità mai vista prima d’ora è diventata un’impresa quasi impossibile (a meno di non essere registi come Werner Herzog, in costante ricerca di sfumature antropologiche). Se è pressoché impossibile essere originali o dire qualcosa di mai espresso prima, dove sta allora la capacità comunicativa del cinema? Come già detto, nel punto di vista.
