
L’incredibile forza comunicativa del cinema è spesso legata al punto di vista.
Uno stesso avvenimento può infatti venire raccontato sotto molti aspetti diversi senza mai ripetersi. L’utilizzo del “POV” inusuale e accattivante è il tratto distintivo di Escobar (in originale il titolo è l’azzeccato Paradise Lost) di Andrea Di Stefano. La vita di Pablo Escobar, raccontata nel film, è nota. Negli ultimi anni il “Signore della droga” colombiano è tornato al centro di molte opere, tra cui serie TV e documentari che hanno contribuito a riportare l’interesse del grande pubblico.
Ispirato a fatti veramente accaduti, Escobar racconta la storia di Nick, un giovane canadese innamorato di Maria, nipote di Escobar. L’ingresso nella famiglia Gaviria sconvolgerà l’esistenza di Nick, portandolo in una spirale di violenza senza uscita.
Il lungometraggio muove i primi passi ponendo un interrogativo fortissimo: nei primi minuti vediamo infatti Nick, impaurito e reticente, seduto vicino ai fedelissimi di Escobar. Egli ha l’incarico di nascondere il tesoro del boss ma, per fare questo, dovrà prima uccidere un uomo. Se il ragazzo non sarà disposto a sporcarsi le mani perderà tutto ciò che ha di più caro al mondo.
Con sapienza ed accortezza, Di Stefano articola tutta la pellicola attorno a questo climax ‘sentimentale’, suggerendolo sin dalle battute iniziali ma sospendendolo fino al terzo atto e raccontando, nel frattempo, la discesa agli inferi di Nick attraverso un lungo flash back.

Paradise Lost è un’opera prima di eccellente equilibrio registico. Attraverso numerose ellissi temporali la sceneggiatura mantiene un ritmo serrato e ad evitare abilmente ogni cliché. La storia d’amore centrale è potente e appassionante. Di Stefano decide di non raccontare il progredire dell’innamoramento, che viene solo lasciato presupporre, ma di ritrarlo in alcuni, pochi, momenti cardine. Così come il rapporto, sempre più pericoloso, tra Nick e Pablo, viene mostrato attraverso gli attimi fondamentali e lasciando non detti, ma intuibili, passaggi mentali del protagonista (che corrispondono a quelli dello spettatore). È qui infatti la forza di Escobar: il punto di vista, come già anticipato.
Nick, lo straniero, è l’occhio della cinepresa. Tutto ciò che osserviamo è filtrato dalla sua personalità, dalla sua morale. Nick sa solamente quanto è noto agli spettatori e viceversa. Josh Hutcherson, che lo interpreta, è una vera sorpresa. Il suo personaggio è sfaccettato, approfondito è plausibile. L’attore funziona bene soprattutto nei dialoghi con Benicio Del Toro, Pablo, un vero gigante che mangia ogni inquadratura e impone un senso di pericolo attraverso l’intonazione della voce e la sua fisicità. Anche il rapporto tra Nick e Maria, l’esordiente Claudia Traisac, riesce a riempire di dramma e a legare a sé gran parte dell’emotività della pellicola.
