DOCTOR SLEEP, la recensione del film di Mike Flanagan

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Doctor Sleep Ewan McGregor
Ewan McGregor in Doctor Sleep
Tentare di adattare per il grande schermo un’opera del “re del brivido” Stephen King non è mai un’operazione semplice.
Ne sa decisamente qualcosa il regista Mike Flanagan che, dopo aver portato su Netflix la sua personale trasposizione de Il Gioco di Gerald, con Doctor Sleep, sequel diretto dello Shining di Stanley Kubrick, si è trovato a far fronte a due immaginari molto distinti, in termini di attesa da parte del pubblico.
Lo scontro tra i protagonisti del film, infatti, si sostituisce a quello dello stesso Flanagan che tenta di districarsi tra la pesante eredità lasciata dal capolavoro intramontabile di Kubrick e le pressanti aspettative da parte dello scrittore di Portland (che con il precedente adattamento del 1980 non ha mai avuto un rapporto idilliaco, per usare un eufemismo).
La prima metà di Doctor Sleep è di pura matrice “Kinghiana”: un lungo prologo che spinge su una narrazione claudicante per tentare di spiegare tutto quello che, all’interno di Shining, Kubrick aveva deliberatamente lasciato da parte, per concentrarsi sulla potenza evocativa delle immagini.
Quella dimensione così intima e ansiogena si trasforma così in qualcosa di molto diverso e, come in altre opere di King (L’Ombra dello Scorpione, su tutte), ci si trova di fronte a una messa in scena dal più ampio respiro.
La necessità di spiegare ogni cosa però, fa perdere fascino all’intera operazione e così, di colpo, la ben nota “luccicanza” lascia spazio al “vapore”, i personaggi e le entità si dividono in categorie o fazioni ben specifiche e il Danny di Ewan McGregor, piuttosto piatto e disinteressato, si trasforma in una sorta di salvatore suo malgrado, come nel più classico dei fantasy per ragazzi degli ultimi anni.
Doctor Sleep Rebecca Ferguson Kyliegh Curran
Rebecca Ferguson e la giovane Kyliegh Curran in Doctor Sleeep
Questa atmosfera adolescenziale, la quale sembra estrapolata direttamente da un romanzo “young adult” di ultima generazione, stona decisamente con i toni più horror ed espliciti del film, decisamente ben realizzati da Flanagan che, con la serie Hill House, ha dimostrato ampiamente di saper ben gestire la materia.
C’è però da dire che tutto ciò non sarebbe necessariamente un male, se non fosse che la sceneggiatura manca di concentrarsi sul vero punto forte dei romanzi di King: quella esperta caratterizzazione dei personaggi che qui, purtroppo, manca del tutto di mordente.
Fortunatamente, a ravvivare un po’ i toni, ci pensano la brillante Rebecca Ferguson e la giovanissima Kyliegh Curran che compensano in carisma interpretativo quello che manca in termini di sceneggiatura ai rispettivi personaggi: la prima è la leader di una setta di vampiri ancestrali che si nutrono di luccicanza, mentre la seconda è una ragazzina che, di quest’ultima, ne ha fin troppa.
Ci si mette comunque un infinità di tempo ad arrivare al vero significato del film e alla sua risoluzione che non si rivela essere quella più giusta ai fini della trama ma ben altra cosa.
Nella parte finale di Doctor Sleep, torniamo finalmente a confrontarci con l’Overlook Hotel, qui rappresentato ormai come un vero e proprio membro del cast, e con il nostro voyeuristico desiderio di immergersi nuovamente in quel tempio del Cinema, visto ora con un nuovo sguardo.
Flanagan non usa effetti speciali per ricreare i personaggi originali ma sceglie invece di coinvolgere nuovi interpreti, filmando poi il suo cast alla stessa maniera in cui Kubrick costruiva le proprie sequenze.
Perché è qui che il film prende finalmente senso, palesandosi come un intelligente omaggio a un capolavoro scolpito nella memoria di molti. Ed è questo il punto: la memoria. La forza delle immagini che soppianta nuovamente e in maniera definitiva ogni tentativo di King di riscrivere e spiegare quello che, nei ricordi degli spettatori di tutto il mondo, rimarrà sempre una sensazione ben tangibile, fatta di corridoi, moquette sbiadite, stanze buie e labirinti claustrofobici eternamente immersi nella neve.