Denti da squalo è l’opera prima di Davide Gentile, una favola moderna e curiosa che non smette di far riflettere.

Di cosa parla Denti da squalo?

Walter, per gli amici “Wa” (Tiziano Menichelli) ha appena perso il padre Antonio (Claudio Santamaria) in un incidente sul lavoro. Spaesato e affranto, mal sopporta i tentativi della madre (Virginia Raffaele) di elaborare il lutto in un modo tutto suo. La sua mente vaga alla ricerca di ricordi che tengano viva l’immagine del padre e mentre osserva una foto che ritrae Antonio in una torretta sconosciuta decide di trovare un senso a quello che gli sta accadendo andando alla ricerca della misteriosa villa. Sorprendentemente scova la tenuta e scopre che nella villa si celano oscuri segreti e una curiosa leggenda: Carlo (Stefano Rosci), un ragazzino poco più grande di Walter gli racconta del temuto Barracuda e del Corsaro (Edoardo Pesce). Ma questo non è il solo enigma celato tra le mura della tenuta: la piscina all’interno della villa ne nasconde un altro, ben più grande…

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Un pesciolino con i denti da squalo

Confezionato dagli stessi ideatori de Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, Denti da squalo vede Gabriele Mainetti coinvolto come produttore. La sceneggiatura di Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, premiata anni fa con il riconoscimento Solinas, ha atteso nove lunghi anni prima di concretizzarsi sul grande schermo per mano del regista Davide Gentile. Il film è una favola moderna dai contorni gentili e al tempo stesso feroce: un cattivo (più di uno in realtà), un buono, un redentore, una torre (elemento di vedute e connessione tra presente/passato), una villa “incantata” e un protagonista “bestiale” fortemente connesso al suo alter ego umano, Wa.
Walter, un pesciolino con “denti da squalo” cresciuto troppo in fretta, sta per guizzare nell’immenso oceano della vita alla ricerca di sé con il desiderio di prendere il largo dalle cure della madre.

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C’è una scena cult?

Chi di voi non ha pensato – all’apparire della temibile pinna del predatore più temuto degli abissi – almeno per un momento, alla celebre scena de Lo squalo che ha tenuto letteralmente incollate intere generazioni? Diametralmente opposto per intenti, genere e contesto naturalmente, non si può negare che la figura dello squalo incuta da sempre un modesto timore unito ad un certo fascino. Il protagonista con le sue movenze ferali e l’incedere sinuoso è una macchina di morte che ipnotizza: una perfetta allegoria della paura. Perché “quando nemmeno il carcarodonte più temuto al mondo, re dei predatori, ha più paura di te, è allora che le gerarchie cambiano e occorre fermarsi a riflettere”…

Perché vederlo?

Per avere un focus centrato sul concetto di libertà, imprescindibile da qualsiasi compromesso. Il film nella sua semplice ricercatezza è adatto a tutti, a diverse fasce d’età. Un coming of age in cui identificarsi e al contempo capace di stimolare la riflessione. Wa e lo squalo captano l’uno le esigenze e le incertezze dell’altro. Fino alla fine l’enigma sarà: chi salva davvero chi?