La recensione di Creed II
e una breve riflessione sul franchise iniziato con Rocky
In principio era Rocky: un pugile di una certa bravura benché ancora immaturo, sentimentalmente e umanamente un po’ mezza tacca, che vivacchia senza slancio in un quartiere depresso e al servizio di uno strozzino, nonostante il suo buon cuore. Vuole conquistare a tutti i costi la timida e sacrificata Adriana, e ci riesce non millantando meriti sportivi o pavoneggiandosi, ma grazie a una dinoccolata, quasi commovente semplicità, rinforzata da una determinatissima costanza nel fare ciò che desidera. È con questo spirito che, un po’ per caso, il semplice Rocky si trova ad affrontare, in un incontro campale – studiato a tavolino dalla pubblicità e dagli scommettitori – il campione dei pesi massimi Apollo Creed. Sta tutta in questa bassa umanità la forza di Rocky, un film come non se ne sono più visti, nella saga: traballante, cupo e spento, a suo modo sentimentale, ma dannatamente vero, e in qualche misura anche nostalgico, lontano. Nonostante metta davanti allo spettatore un mondo isolato e gretto, comprensibile fino in fondo solo da chi quotidianamente lo vive – e difatti si rinuncia alla semplicità dei didascalismi – non si scrolla di dosso un’idea, un pensiero di pietà del tutto comprensibile e condivisibile: in un piccolo mondo in cui tutti pensano in piccolo, solo il piccolo Rocky vuole riuscire a vedere la luce, a conoscere una speranza di realtà diversa, ma senza doppi fini: non vuole la gloria, ma desidera, piuttosto, iniziare a vivere davvero, senza perdere d’occhio l’importanza delle cose meravigliosamente banali che contornano la sua esistenza. Sul ring, osannato per aver tenuto testa a un campione mondiale fino allo sfinimento, non si cura di nessuno, se non dell’amata Adriana.
Nel franchise, quest’arresa bellezza è un unicum. La storia del successo dello Stallone Italiano, e delle sue rivincite, delle battaglie mosse da vendetta, amore, amicizia, necessità e politica (“Se io posso cambiare, e voi potete cambiare, allora tutto il Mondo può cambiare”) non ha, anzi necessariamente non può avere lo stesso appeal: quella di allora era una storia di dignitosa sofferenza che era tanto per cominciare dimostrazione di virtù, una sincera bontà oltre la quale emergeva un’urgenza affermativa che non aveva niente di veramente personale, egoistico. Era, in sostanza, una storia di vita, senza semplicismi di comodo, senza imposizioni identitarie, senza il disadorno orrore di un messaggio da veicolare a ogni costo – che è poi quel gap in cui inciampano, secondo noi e pur con una loro bellezza legata ai tempi, già Rocky III e Rocky IV. La lunga coda dei Rocky, in effetti, trascina il peso di una (spesso oscena) patinatura che impone le immagini e la manipolazione del messaggio sulla schiettezza dell’originalità da cui tutto è partito. Ne soffrono, ovviamente, anche i postremi risultati della serie “classica”: Rocky V, per di più gravato da un improponibile ritorno alle origini e alla strada con forzature, cliché e faciloneria inattendibili e quasi urtanti, nonostante la mano del vecchio Avildsen – la cui regia è un buon respiro sopra il predominio della fotografia ammorbidita dai filtri diffusori e cross-screen di cui gli anni ‘80 sembrano non poter fare a meno; e infine la slavata regia di Rocky Balboa, ancora per mano di Stallone. Ma dopo Rocky contro Drago, e a ben vedere anche prima, qualcosa si rompe, e la storia dello Stallone Italiano diventa una macchina blanda e banale che non ingrana, che butta fumo: la sua spontaneità viene soffocata da una impalcatura via via sempre più posticcia, inautentica. Rocky, in qualche misura, si spegne: tanto si è insistito sulla complessa personalità di quel pugile apparentemente puerile che la si è svuotata, resa uno strumento malandato incapace di tenere l’accordatura.
Quando si arriva a Creed, dunque, l’impressione è che tutto quello che c’era da dire, almeno nella costruzione dei personaggi e delle dinamiche – che giocoforza sono destinate a ripetersi – sia stato detto. E che eppure, alla fine della fiera e nonostante le ovvie novità, l’elemento più interessante della storia sia ancora quel “piccolo” Rocky non più protagonista ma vitale supporto: quel Rocky che, nel bene e nel male, dal sempliciotto che era – benché, pure nella sua fase più “borghese”, gli fosse sempre facile aver presenti le priorità di un marito e un padre spontaneamente capace e generoso, con qualche sbandata – è finito per tornare a essere l’uomo frugale delle sue origini, forzuto ma fragile, un tenero gigante che fa, ormai anzianotto, del buonismo arreso e della larvale quotidianità la propria filosofia di vita, solo al mondo e afflitto sia da una vecchiaia dominata dai pallidi ricordi sia dalla minaccia di un grave male. Così Creed senza Rocky sarebbe malfermo, perché il contenuto del film, poi, segue quel crinale discendente già noto: scosso dall’idea di crescere all’ombra di Apollo, Adonis Johnson Creed (Michael B. Jordan) abbandona una vita da nababbo – che a ben vedere, tolto il ricco patrimonio familiare del quale nessuno pare volersi curare, è la vita normalissima di un lavoratore – a vantaggio di un riscatto professionale e sportivo che passa per una idealizzazione abbastanza scontata della strada e dei bassifondi, lustri e per niente veritieri, come unico ginnasio di vita: quasi – viene da dire – uno status symbol.
Creed combatte per un riscatto molto diverso da quello di Rocky, ben più effimero, e dominato da una casualità, per così dire, studiata su misura. In effetti, Rocky otteneva l’occasione di un cambiamento della sua misera esistenza senza smaniare per una realizzazione tanto affermativa: nel mezzo della sua vita da perdigiorno si presentava l’attimo da cogliere, la possibilità di dimostrare una determinazione tutta figlia di un orizzonte chiuso e soffocante – ma al giovane Rocky sarebbe bastato, forse, molto meno. Non è così per il giovane Creed, che è determinato, ma va scientemente alla ricerca del suo carpe diem: condiziona la propria esistenza scommettendo al buio, e la sorte gli da – fortunatamente – ragione. Ha già un carattere forte, ha già le idee chiare: paradossalmente, con tali premesse, è più difficile provare per lui la stessa trascinante empatia che si poteva provare per l’immaturo Rocky. Più interessante è invece il rapporto di stima che nasce fra maestro e allievo, di piena fiducia e reciprocità – benché forse non faccia presa come dovrebbe, nonostante divenga viva via centrale nel racconto: un compendio riuscito alla vana infatuazione di Balboa per il (traditore) campione in erba di Rocky V.
Non sarà un caso, allora, che, con questa base, Creed II si rimetta in discussione: certo, c’è sempre l’idea di una linearità narrativa senza soluzione di continuità, e c’è ancora un sostenuto percorso di maturazione che, tra l’altro, è più incisivo di quello intavolato dal suo diretto predecessore. Forse perché il discorso sulla famiglia che si propone ora, vero e importante fulcro della narrazione, non si concentra più sull’ascendenza (il nome del padre) ma sulla discendenza (dare importanza ai valori familiari e alle reali urgenze della vita), un po’ come nei Rocky – almeno prima che questi temi si perdessero nei fumi della spettacolarizzazione. Ma, soprattutto, c’è quel fortissimo recupero di Ivan Drago (l’inossidabile Dolph Lundgren) e l’introduzione del taciturno figlio Viktor (l’enorme Florian Munteanu): non solo viene ripescato quello che probabilmente nella saga è il personaggio più carismatico (benché non parli quasi mai se non per sentenze), o quantomeno più iconico, ma anche, indirettamente, il film che più di tutti è inserito in un contesto storico e politico rispondente, cioè quello che sembra intavolare nel modo più immediato un dialogo (ovviamente parziale) col suo presente (“non è più un film, ma un rito mercantile fondato sulla comunicazione di massa al livello più basso”, dice Morandini). In Creed II un sottotesto politico, inevitabilmente, serpeggia: i russi si preparano allo scontro con l’americano pieni di livore – afflitti in patria da ogni privazione, marchiati come perdenti in imposto ascetismo: tutto è freddo, disadorno, immobile, fotografato quasi con effetto-notte, come se il paese in cui si trovano sia più in crisi dell’Unione Sovietica in piena Perestrojka. Non è però una situazione fotocopia di Rocky IV: Ivan e Viktor non sono pupilli “di Stato”, oggetti di esperimenti in nome di chissà quale sinistro fine, ma acquistano una certa umanità, nonostante la già nota scarsa propensione al dialogo e all’espressione: è l’umanità della loro solitudine.
Adonis Creed, al contrario, ha tutto, e si bea di gloria e agi. Come il padre, ovviamente, sottovaluta il suo sfidante, ma almeno ha la fortuna di non lasciarci la ghirba. Dovrà rimettere in discussione se stesso e la sua vita con Bianca (Tessa Thompson): rinunciare alle comodità, “ricrearsi” un’esistenza difficile e senza comfort e darsi a un allenamento intensivo in un luogo di frontiera che ha (sarà un caso?) l’aspetto del Messico. Così facendo si apre la scena agli immancabili sviluppi di sentimento: Creed ce la fa, e comprende fino in fondo ciò che davvero conta nella sua vita; e così anche Ivan Drago, che salva il figlio da un destino funesto e dimostra un inedito lato di sé, facendo intuire che la compassata cattiveria e l’imperturbabilità sono una maschera facilmente lavabile davanti alla schiettezza dell’incondizionato amore paterno. In sostanza, vincono tutti, nel senso che qui non è di certo determinante il risultato sportivo ma l’atteggiamento di ognuno verso se stesso e verso l’altro, anche al netto delle forti posizioni personali, come dire: nulla è assoluto, e chi non arretra di un passo – come gli opportunisti familiari di Drago, che si interessano di mera apparenza – è già sconfitto in partenza, non può che fare da contorno. In ciò Creed II compie il miracolo, più di quanto non avesse fatto Creed col dare lustro al valore salvifico dell’amicizia sincera: col recupero di un film incolore e netto nelle posizioni è capace di rivedere, rischiarare parte – forse troppo esigua – di quel vivido sentimento che muoveva quell’italo-americano bonaccione che sognava la serenità e non l’immortalità. Nel finale, quindi, il film decolla in impennata, con il suggerimento di una necessità di pacificazione che metta al riparo dai mali: Rocky, sul ring, osannato per aver tenuto testa a un campione mondiale fino allo sfinimento, non si curava di nessuno, se non dell’amata Adriana. Il taciturno Ivan Drago, sul ring, si rivolge al figlio cercando di rinfrancarlo, in uno slancio di ritrovata assennatezza che – considerati i trascorsi del franchise – ha del commovente.
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