Con Contagious-Epidemia Mortale del regista esordiente Henry Hobson il trattato cinematografico sul fenomeno ‘zombie’ conclude momentaneamente il discorso iniziato nel lontano 1968 con La notte dei morti viventi del maestro George A. Romero. Molti dei più attenti cultori della settima arte e del genere potrebbero però rivendicare, molto probabilmente con ragione, il capolavoro di Ubaldo RagonaL’ultimo uomo sulla terra del 1964, la prima opera mai realizzata sui mitologici zombie. Tutto vero, ma quella feroce critica sociale, quell’idea rivoluzionaria antimilitarista che traspare da ogni singola immagine, i movimenti di macchina totalmente anarchici con cui Romero manipola l’intera storia fanno sì che la paternità cinematografica degli zombie spetti di diritto al regista americano. Con il passare del tempo e dei lungometraggi il mito del ‘morto vivente’ ha subito svariate e complesse trasformazioni che lo hanno reso protagonista in tutti i generi possibili dell’intero panorama filmico. Il concetto di “horror” non è più applicabile alla figura dello zombie: la commistione di genere è superata, rimane soltanto la figura emblematica del ‘risorto’ attorno al quale si costruisce poi la sceneggiatura che può assumere diverse forme e declinazioni, dalla demenziale all’horror-comica, dalla drammatica a quella sentimentale (guai ad innamorarsi di uno zombie! provate a chiedere a Teresa Palmer protagonista di Warm Bodies) e persino erotica (come non ricordare ‘Le notti erotiche dei morti viventi‘ del grande demiurgo italiano Aristide Massaccesi, alias Joe D’Amato).
Questa breve e doverosa introduzione è stata scritta per cercare di trovare un genere nel quale collocare e definire la pellicola di Hobson: zombie intimista. Come al solito la scelta della distribuzione italiana è stata quella di modificare il titolo originale, Maggie, in un fuorviante e quasi distaccato Contagious, sostenuto poi da Epidemia Mortale.
La storia analizza i rapporti di una ragazza, Maggie (Abigail Breslin) appunto, con i propri famigliari ed amici durante gli ultimi giorni della sua vita dopo aver contratto un misterioso virus che la trasformerà ineluttabilmente in uno zombie. Padre della ragazza è il granitico Arnold Schwarzenegger che all’età di 68 anni abbandona il genere action (ad essere sinceri non vediamo l’ora di rivederlo nel nuovo Terminator Genisys) per vestire i panni di un genitore impotente di fronte ad una malattia che sta consumando giorno dopo giorno la giovane figlia. La caratteristica principale del film, per certi versi frutto di un’esperienza inedita e mai vista sul grande schermo, è quella di spiazzare lo spettatore, lasciandolo stupito e disorientato davanti ad un’opera quasi autoriale nella quale le parole zombie, horror e Schwarzenegger sembrano stonare con il ritmo del lungometraggio. Invece tutto funziona ed è calibrato alla perfezione perfino le lacrime strappate in un finale onirico che non lascia nulla all’interpretazione.