Colazione da Tiffany, di Blake Edwards, il cult movie tratto dal romanzo di Truman Capote, con Audrey Hepburn e George Peppard

Iconico; chic; mitizzato per anni come una delle più pure rappresentazioni della libera femminilità filmica; cucito addosso alla deliziosa Audrey Hepburn. Eppure Colazione da Tiffany (1961) di Blake Edwards, è tutt’altro che un film leggero e spensierato. Perché se la regia di Edwards potrebbe far pensare alla leggerezza di Operazione sottoveste (1959); al ciclo de La Pantera Rosa (1963-1993); a Victor Victoria (1982); è anche vero che il cineasta americano ha saputo trattare solidi drammi: come nel caso de I giorni del vino e delle rose (1962) e Il seme del tamarindo (1974).

Tratto dall’omonimo romanzo del 1958 di Truman Capote. Sotto la coltre patinata di un danese e del tubino nero più famoso del mondo – quello di Givenchy – in Colazione da Tiffany giace un cupo sottotesto con cui trattare dell’incapacità dell’individuo di trovare il proprio posto nel mondo.

I titoli di testa de Colazione da Tiffany
I titoli di testa de Colazione da Tiffany

Una mole narrativa non indifferente, eppure Capote rimase fortemente deluso dell’adattamento filmico curato da Edwards. A partire dal contesto scenico degli anni Sessanta, che soppianta totalmente quello degli anni Quaranta del romanzo, e non solo. Nel Colazione da Tiffany capotiano, Holly Golightly è infinitamente più provocatoria e sferzante. A partire da una bisessualità appena pronunciata nell’opera di Edwards; sino a battute smorzate; personaggi rimossi (Joe Bell); altri inventati di sana pianta (Liz).

L’affaire Hepburn-Monroe e il disappunto di Truman Capote

La problematica più grande dell’adattamento filmico di Edwards, sta proprio nell’iconica Audrey Hepburn – che con quest’opera, peraltro, spiccò il volo sfondando la porta dell’immaginario collettivo. Si, perché oggi sembra quasi impossibile da pensare, eppure – nello scrivere di Holly Golightly – Capote aveva in testa soltanto un volto: Marilyn Monroe.

Venduti i diritti alla Paramount, Capote aveva indicato come protagonista assoluta la “sua” bionda musa tanto che, come riportato nella biografia Audrey Hepburn (2001) di Barry Paris, Capote disse espressamente:

Marilyn è sempre stata la mia prima scelta per interpretare la ragazza, Holly Golightly.

Audrey Hepburn e Marilyn Monroe: il malcontento di Truman Capote
Audrey Hepburn vs Marilyn Monroe: il malcontento di Truman Capote

La scelta ricaduta sulla Hepburn, in qualche modo spiazzò lo scrittore statunitense, che in tutta risposta accusò la Paramount di doppio gioco.

Nel cast figurano Audrey Hepburn, George Peppard, Martin Balsam; e ancora Mickey Rooney, Patricia Neal e Buddy Ibsen.

Colazione da Tiffany: la sinossi del film di Blake Edwards

Rientrata a casa all’alba, dopo il suo rituale catartico di una “colazione da Tiffany“, Holly Golightly (Audrey Hepburn) viene svegliata qualche ora più tardi dal suo nuovo vicino: Paul Varjak (George Peppard). Entrato nell’abitazione per usare il telefono, Paul fa la conoscenza della vicina e del gatto domestico; a cui, peraltro, Holly non ha mai dato un nome, chiamandolo semplicemente Gatto. Tra complicità; ritorni inaspettati; pisolini; incontri casuali e feste, sboccia l’amore tra Holly e Paul, ma potrebbe non bastare per poter parlare di “felicità“.

Audrey Hepburn in una scena de Colazione da Tiffany
Audrey Hepburn in una scena de Colazione da Tiffany

Tra un caffè lungo, un danese e un gatto siamese: Holly Golightly

Le prime luci dell’alba nella Grande Mela; una donna scende da un taxi sulla Fifth Avenue; precisamente all’altezza del negozio di Tiffany. Guarda l’insegna; si avvicina a una vetrina vestita di tutto punto; e fa colazione con un danese e un caffè lungo “americano”. Sulle note di Moon River di Henry Mancini, in un gioco di riflessi che creano inaspettati campi e controcampi, ecco aprirsi il racconto di Colazione da Tiffany.

In una sequenza divenuta iconica, con cui Edwards pone da subito le basi dell’anima narrativa del racconto in una semplicità d’intenti, il cineasta americano presenta la Golightly della Hepburn ponendo le basi del suo conflitto scenico e del background caratteriale e familiare. Tra la ricerca del proprio posto nel mondo in un insolito coming-of-age e un inusuale contesto come emerge in una linea dialogica con il Paul di Peppard:

Io vada pazza per Tiffany, specie in quei giorni in cui mi prendono le paturnie. […] È come un’improvvisa paura di non si sa che […] in questi casi mi resta solo una cosa da fare: correre da Tiffany, è una cosa che mi calma subito. Quell’aria solenne, lì non può accaderti niente di brutto. Se io trovassi un posto a questo mondo che mi facesse sentire come da Tiffany… comprerei i mobili e darei al gatto un nome!”

Una scena de Colazione da Tiffany
Una scena de Colazione da Tiffany

Tra una reiterata gag chapliniana e un campo lungo in lontananza consumando cialda e caffè; Colazione da Tiffany disegna i contorni di Holly Golightly per mezzo di una caratterizzazione audace e semplice. Una donna indipendente e sfuggente, che rigira gli uomini come le piace e a suo favore – e secondo le sue regole. Un’anima libera e vivace, che vive dei suoi orari e delle sue passioni. In una frivolezza d’intenti con cui nascondere l’incapacità – o forse la paura d’affezionarsi a qualcuno. In una codifica d’immagini, e parallelismi scenici che denota una brillantezza di scrittura che trova riscontri narrativo-testuali in Gatto – il felino domestico – il perfetto simulacro narrativo-caratteriale:

Lui è buono, vero, Gatto? Su, vieni qua, povero amore, povero amore senza nome… ma io penso che non ho il diritto di dargli un nome; perché in fondo noi due non ci apparteniamo, è stato un incontro casuale. E poi non voglio possedere niente, finché non avrò trovato un posto che mi vada a genio; non so ancora dove sarà, ma so com’è […] è come Tiffany.

Colazione da Tiffany: Holly e Paul, Hepburn e Peppard

Lo sviluppo scenico di Colazione da Tiffany, permette di far emergere la dinamica relazionale tra gli Holly e Paul di Hepburn e Peppard attraverso una componente dialogica sferzante e ironica. Così facendo, Edwards pone le basi del cuore del racconto in una crescita dosata ed empatica, di una tangibile e straripante chimica tra i due agenti scenici. In una connessione quasi istantanea tra Holly e Paul, Edwards costruisce l’immaginario del romanzo di Capote cucendolo così, addosso a una struttura narrativa lineare, dall’intreccio semplice ma che vive dell’intensità dei suoi protagonisti: due personaggi tanto opposti nella dimensione lavorativa quanto similare su di un piano emotivo.

Tra voyeurismo dello sguardo e un uso quasi hitchcockiano della soggettiva, Edwards disegna, con cura registica e del respiro scenico, i contorni del Paul di Peppard. In una codifica d’immagini tra un bacio sfuggente e una manciata di dollari sul comodino – che rendono Holly e Paul due facce della stessa medaglia.

Audrey Hepburn e George Peppard
Audrey Hepburn e George Peppard nella climax de Colazione da Tiffany

A cambiare però è il vivere il tempo. Holly ne è totalmente sospesa, come fosse un essere etereo che vive “costretto” sulla Terra. Un figura che è angelo e diavolo, che vive come fosse sospesa tra le nuvole; un’eterea ed eterna lolita che vive in un mondo suo e a modo suo, che ammalia e seduce – nello scopo della ricostruzione (apparente) dei valori familiari.

Un contrasto tra le due dimensioni che tra le melodiose note di un pianoforte e un riposino, si cuce addosso a una sfavillante e graziata Hepburn in un incedere di incontro casuale in incontro casuale, con cui alzare progressivamente la posta in gioco. Paul è invece ancorato al terreno. Dalla bellezza angelica, e legato a una vita di sogni irrealizzati ma non ancora abbandonati tra la dimensione scenica dello scrittore e quella del mantenuto. Un incontro quindi che lega e unisce – in intenti simili ma scopi differenti. E che trova nella risoluzione del conflitto scenico un’unione salvifica, necessaria, vitale – con cui abbracciare la vita in modo “vero” e “sano”.

La crisi dell’individuo e dei valori familiari tra feste e la climax

È nel corso del secondo atto che emerge la più profonda anima nichilistico-esistenzialista alla base de Colazione da Tiffany. Nel diradare la fitta nebbia attorno alla dimensione caratteriale di Holly, Edwards decostruisce le intenzioni sceniche della sua splendida protagonista. Ricodificando interamente il suo background, il cineasta americano svela la ratio alla base del suo incedere nel racconto. L’eterna lolita che giostra con la vita e gli uomini è una creatura selvaggia e senza uno scopo; una donna incapace di trovare il suo posto nel mondo. Rendendo così, Colazione da Tiffany – un coming-of-age arrestato sul più bello.

Una crisi dell’individuo; di vacuità e di ubriacature; di spensieratezza perenne e risate stanche che trovano nel segmento scenico della festa in appartamento la sua più spiccata accezione. Tra specchi con cui ridere e piangere; orologi da caviglia; incendi domati dal caso; osservatori sociali; agenti libertini e “trenini” – l’arrivo della polizia è un risolutivo deus ex machina di un’orgia lasciva d’amicizie strategiche e di finti rapporti che bollano Holly come una “matta sincera” – ma pur sempre matta.

La festa di Colazione da Tiffany
La festa di Colazione da Tiffany

Una matta però, che nell’incedere del racconto, cerca di cambiare le cose. Holly sgomita, cerca di invertire la polarità della sua vita ma qualcosa sembra sempre frenarla – finendo con il ricadere nei propri vecchi schemi mentali. Ciò che mostra Holly al mondo non è sé stessa, ma una proiezione della sua dimensione individuale. Un’immagine; una facciata; una maschera goffmaniana. Qualcosa necessaria a nasconderne i difetti e l’insita paura di una vita infelice. È proprio nella risoluzione del conflitto scenico che Colazione da Tiffany esplode in tutta la sua carica esistenzialista.

La sopracitata unione tra Holly e Paul è davvero salvifica, perché permette a due animali selvaggi, due randagi, di trovare uno scopo per vivere. In un’amore che significa “appartenenza“, ma non “mettere in gabbia“; piuttosto “comprensione“; “accettazione“; “impedire di mandare la vita in frantumi“. Il ritrovamento di Gatto, va ben oltre il riportare a casa il felino piuttosto l’accettazione di sé e del proprio Io, nel bene e nel male.

Audrey Hepburn nella climax de Colazione da Tiffany
Audrey Hepburn nella climax de Colazione da Tiffany: l’accettazione di sé

Il finale originale, e perché parliamo ancora oggi di Colazione da Tiffany?

Uno dei cambiamenti più radicali tra adattamento cinematografico e opera originale – che non abbiamo ancora citato – riguarda il finale di Colazione da Tiffany. L’explicit del romanzo di Capote infatti, vedeva tutt’altro che un happy-ending da fiaba, piuttosto una risoluzione del conflitto più spiazzante, vivace e romanzesca. Holly prende davvero quell’aereo per il Sud America, mantenendo così la sua indipendenza e coerenza.

Il finale concepito da Edwards ed Axelrod, paradossalmente però, è meno sorprendente ma più valido a livello cinematografico. Cova al suo interno infatti un’evoluzione, una trasformazione del personaggio che trova compimento nell’accettazione di sé. È in questo semplice, ma efficace switch narrativo che Colazione da Tiffany passa da comune pellicola – magari anche cult – a capolavoro puro e crudo. Perché nell’amore che lenisce ogni ferita e ci dà la forza di superare anche le paure più buie, Edwards segna l’immaginario collettivo e si consegna all’immortalità cinematografica. Lo stesso dicasi per Audrey Hepburn, che dopo ruoli delicati sino all’apogeo “positivo” de La storia di una monaca (1959) sceglie, nel 1961, di ricostruisce la sua immagine cinematografica tra Colazione da Tiffany e Quelle Due; mettendosi in gioco e piazzando due performance rivoluzionarie e spiazzanti.

Non c’è solo il glamour in Colazione da Tiffany; o il tubino di Givenchy; le collana di perle della vetrina di Tiffany; c’è molto di più. La solitudine mista a paura; l’immagine che tradisce l’intimo; l’incapacità di lasciarsi andare e l’incomunicabilità umana. La solitudine più disperata che trova ristoro nell’amore e nell’accettazione di sé, anche se “ammaccati”. Una meraviglia senza tempo.