Lei, Bernadette (Cate Blanchett), è un brillante architetto dal talento invidiabile. Lui, Elgie (Billy Crudup), è un genio dell’informatica. Insieme vivono una vita apparentemente perfetta, resa tale anche da Bee, figlia educata, disciplinata e amata incondizionatamente. Eppure qualcosa scricchiola nell’anima di Bernadette. Il suo è un bozzolo frammentato che non le permette di liberarsi in farfalla. È un guscio psicologico che la tiene claustrofobicamente prigioniera della sua mente e delle sue ansie. Rinchiusa tra le pareti del suo io interiore, e nascosta dietro le lenti scure dei propri occhiali da sole, Bernadette ritrova in quell’abitazione così tanto ricercata il doppio perfetto della sua esistenza. Elegante all’esterno e sviluppata in altezza (rimasuglio simbolico della passata ambizione della donna), casa Fox-Branch in Che fine ha fatto Bernadette? è al suo interno un susseguirsi di ambienti lacerati, fragili, pronti a crollare. E fragile è anche l’interiorità di Bernadette, talmente votata a una professione che ha dovuto abbandonare, da ritrovare in quegli spazi abitativi lo specchio riverberante un crollo psicologico tenuto sottaciuto e ora pronto a esplodere come un geyser. La dimora reduplica così in ogni crepa, o piccola perdita d’acqua, frammenti inesplosi dell’animo di una donna a pezzi. Colta sull’orlo di una crisi di nervi rattoppata da sorrisi di circostanza ed esplosioni di caustico sarcasmo, a Bernadette serve una miccia, uno zampillo capace di innescare un fuoco che la bruci dall’interno, e dalle proprie ceneri rinascere. Il suo viaggio dell’eroe è una ricerca di se stessa perdutasi nel corso degli anni, un recupero di tessere interiori lasciate sbadatamente indietro e ora ricercate attraverso quello che un leitmotiv caro alla filmografia di Richard Linklater: il viaggio.

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Già, perché immortalato dalla cinepresa di Linklater, il passeggiare tra città d’arte, o lo stare seduti su sedili di automobili, o scomode panche di una barca, perde il suo significato primario per vestirsi simbolicamente di rinascita e rivoluzione interiore. Eppure in questo fragile castello di carta, tutto crolla improvvisamente proprio quando doveva elevarsi a qualcosa di più grande, di più solido. La fuga di Bernadette non è più la scintilla che accende gli ultimi rimasugli di una fiamma debolmente alimentata dalla routine quotidiana, bensì la caduta accidentale in un vortice narrativo privo di stimoli, piatto e calmo come le acque che bagnano le imponenti pareti ghiacciate degli iceberg dell’Antartide. L’ultimo atto, quello più coinvolgente dal punto di vista narrativo ed emotivo, perde di freschezza, lasciando spazio a quella stessa noia che lacera la precarietà esistenziale di Bernadette. Commistione di incontri fugaci e poco indispensabili nell’economia dell’intreccio, il cambiamento della donna qui narrato è un processo dilatato, dove la comprensione e l’attesa finale dello spettatore vengono messi a dura prova. A poco servono le suggestive e ampie inquadrature dal respiro documentaristico sui paesaggi antartici. Se da una parte tali riprese risultano funzionali per sensibilizzare il proprio pubblico su tematiche eco-ambientali, dall’altra inchiodano lo sviluppo narrativo, frenando di colpo il processo affettivo instauratosi tra il pubblico e l’(anti)eroina di Linklater.

Con Che fine ha fatto Bernadette? Richard Linklater ci prova a cercare l’elusivo e univoco aggancio coesistente tra suoni, immagini e racconto per narrare non solo una rivalsa personale, ma anche e soprattutto il ritrovamento di un affiatamento famigliare ormai creduto perso per sempre. Il regista prende per mano i propri spettatori e li accompagna con delicatezza in questa palingenesi purtroppo riuscita a metà. Il suo obiettivo cinematografico si fa lente indagatrice di una donna sull’orlo di una crisi di nervi. Ci mostra il suo passato attraverso il suo presente, ce la fa conoscere a piccoli passi, tra isterismi, idiosincrasie e umane imperfezioni. E per quanto folle possa apparire, il pubblico sente che tra lui e Bernadette si sta instaurando un rapporto di complice intesa. Un legame empatico sottolineato da un susseguirsi di primi e primissimi piani che isolano il personaggio dal resto del mondo, e reso possibile dal talento di una Cate Blanchett sempre impeccabile, anche quando rasenta l’overacting (capacità, questa, già dimostrata in Blue Jasmine di Woody Allen).

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Bernadette è una donna che vive trascinata dall’onda del ricordo. Un’esistenza, la sua, “fotografica”, se per fotografia intendiamo – prendendo in prestito le parole di Bazin – “la capacità di imbalsamare il tempo”. Centro di piccoli rituali famigliari, la sua condotta di vita si lascia avviluppare nella zona affettivo-nostalgica delle feticizzazioni quotidiane, auto-impedendosi così di gustarsi il presente perché troppo intenta a (soprav)vivere sulla scia del passato. Recriminazioni, ricordi, rimpianti, sono tutte tessere di un puzzle esistenziale che si sostituiscono ai piaceri della vita. Solo una scelta impulsiva, o un’azione improvvisa, come quella di intraprendere un viaggio in solitaria tra le sterminate distese ghiacciate dell’Antartide, può causare una rivoluzione nell’esistenza di Bernadette, ripristinando la sua essenza primordiale. Una scheggia impazzita in un’ordinaria quotidianità qui ridotta a una sequela di inquadrature senza cuore e senza anima.

Un piattume che nemmeno il montaggio di Sandra Adir, o la fotografia alquanto monocromatica a cura di Shane F. Kelly riescono a rivitalizzare, lasciandoci in balia di una quest personale rattoppata nel suo felice epilogo da trovate poco mordenti e ritrovamenti stucchevoli. Sono lontane le evoluzioni affettive e personali di personaggi come quelli di Prima del Tramonto, Boyhood, o Last Flag Flying. E così, a mano a mano che ci avviciniamo alle battute finali dell’opera, alla domanda “che fine ha fatto Bernadette” si sostituisce il più lapidario “che fine ha fatto Richard Linklater?”.