La recensione di Midsommar, il film di Ari Aster

Fa paura restare soli… Soprattutto in Midsommar.

Dopo la morte della sorella e dei genitori Dani resta con un fidanzato che non la ama. In preda alla disperazione decide di unirsi a lui e a tre suoi amici per un viaggio in un villaggio sperduto del nord Europa in occasione della festa di mezza estate.

Con Midsommar (qui la nostra recensione) Ari Aster propone un approccio autoriale e non convenzionale al cinema horror contemporaneo. Omaggia il cinema del passato cercando di muoversi al di fuori degli stereotipi del genere ricercando nuove strade, magari rovesciate come in un’evocativa scena del film.

Il suo esordio su grande schermo (Hereditary) cominciava con la morte di un familiare e l’elaborazione del lutto diventava il centro narrativo. Lo stesso avviene in Midsommar dove l’opprimente oscurità che avvolgeva il primo film ritorna nelle prime scene per poi dileguarsi quando i ragazzi giungono nel villaggio, paradiso/inferno di luce.

Il sole di mezzanotte mette a fuoco il buio interiore di Dani. La comunità si rivela una vera famiglia in grado di ascoltare le sue paure e i suoi desideri, di soffrire e gioire con lei. Anche lo spettatore può vedere sul volto della protagonista (un’eccellente Florence Pugh) le sue emozioni grazie agli insistiti primi piani che il regista le dedica. Lunghi piani sequenza, lente carrellate e un montaggio invisibile annullano lo spazio e il tempo nel villaggio. La troppa luce finisce col deformare le cose e distorcere il pensiero, unita all’uso massiccio di droghe (sonniferi, fungi allucinogeni, tè “speciali”). Il commento musicale accompagna il rito con canti, sospiri e urla in un crescendo che diventa quasi insostenibile fino a portare i protagonisti e lo spettatore in uno stato di trance. Quadri, arazzi e dipinti si rivelano oscuri presagi di ciò che succederà.

La triste principessa diventerà regina e sconfiggerà l’orso. E forse potrà tornare a sorridere.

Federico Caronni

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