Quanto è grande l’amore per un figlio? Non ci sono abbastanza unità di misure per quantificarlo, o distanze da percorrere per calcolarlo. È un amore infinito, che ti porta a condividere e far tue le gioie e i dolori di quel piccolo ometto divenuto un giovane adulto. David Sheff adora suo figlio Nic, un ragazzo bello, talentuoso e intelligente. Lo ama nei suoi successi e nella sua caduta più infima, distruttiva. Quella di cui soffre Nic ha un nome e il solo pronunciarla fa venire i brividi. È uno degli incubi più temuti da ogni genitore, il tunnel adombrato di aura nefasta che tenta i propri ragazzi e, una volta addentratovisi, avvolge le proprie vittime stingendole a sé da un patto siglato da anima e corpo: la dipendenza dalla droga.
La droga al cinema è stata spesso trattata in ogni sua sfumatura, ma in Beautiful Boy quello che viene raccontato è molto più del rapporto “tossico” tra il protagonista e la sua dose giornaliera. Al centro del nuovo film di Felix Van Groeningen c’è soprattutto il legame profondo, indissolubile tra un padre e il figlio messo in discussione dalla dipendenza del giovane. Da Alabama Monroe il regista riprende la struttura narrativa su cui sviluppare la propria opera tratta da una storia vera: un rebus temporale frastagliato, confuso e per questo perfettamente reduplicante la mente di chi come Nic vive in uno stato alterato. È un gioco di analessi e presenti incerti, come incerto è il cammino del giovane protagonista. Una lotta giocata sul filo di un rasoio, su cui camminare sospinto dalla forza di volontà e dall’istinto di sopravvivenza. La casa, la scuola, ogni singolo ambiente dai contorni famigliari e pregni di sentimento diventano un campo di battaglia dove alla polvere da sparo si stendono strisce di cocaina e il fumo dei bombardamenti si tramuta in fumo di canne e poi eroina.
Commovente ed emotivamente d’impatto, con Beautiful Boy lo spettatore accetta di intraprendere questo nuovo viaggio riconoscendone anche la sua struttura dispersiva, eppure sente che qualcosa inizia ad andare storto. Fotogramma dopo fotogramma questo gioco a incastri diventa insopportabile, complice la natura carica di sentimenti dell’intreccio narrato e a stenti sorretto. Affidandosi a un montaggio non lineare il regista non offre il tempo necessario al proprio pubblico di entrare nella testa dei due protagonisti, di assimilare il loro pensiero per farlo proprio, esorcizzandolo.
Beautiful Boy diventa così un oceano in tempesta di emozioni non sempre ben gestite e a fare da traghettatori ci pensano i due attori protagonisti. Steve Carell e Timothée Chalamet prestano anima e cuore ai due personaggi, fanno proprie le loro storie, li studiano, li interiorizzano facendoli rivivere magicamente sullo schermo.

Se la parte più emozionale è affidata al personaggio di Carell, il giovane Chalamet si riconferma uno tra i giovani attori più talentuosi della sua generazione: il suo Nic Sheff è spesso chiuso in una corazza sigillata dall’esterno e sull’orlo dell’implosione. La sua, come quella della sua controparte genitoriale, è una performance giocata in sottrazione e rivolta verso un naturalismo quanto più verosimile e scevro di retorica. È disarmante la capacità di recitazione di questo giovane interprete. Ogni gesto, ogni smorfia, è sempre ben calibrata e mai forzata. L’attore non è solo un presta-corpo che si limita a ripercorrere meccanicamente espressioni e gesti tipici del modello umano a cui si ispira. Nessun over-acting a macchiare l’intensità della propria interpretazione.
In maniera analoga in termini di introspezione e carica espressiva, la performance di Steve Carell in Beautiful Boy dimostra quanto dietro al capo-ufficio imbranato e idiosincratico di The Office si nasconda un attore con la A maiuscola. Il suo David è un uomo sì colpito, ma che non intende affondare: non urla, non esaspera i propri movimenti, ma lascia accumulare tutto il proprio dolore all’interno dei propri occhi. È in quello sguardo rivolto verso il basso, verso quel vortice che ha trascinato il proprio figlio che sono racchiusi i suoi più lancinanti tormenti e le sue più ataviche paure.

Beautiful Boy

Ad acuire l’intensità del film ci pensa una fotografia disomogenea e cromaticamente altalenante. Le luci e le ombre volteggiano cedendo il passo sui volti dei personaggi, immortalati in perpetua lotta con i propri fantasmi del passato e, soprattutto, dell’incerto presente. Da nucleo armonioso e in perfetto equilibrio, quello dei Sheff si tramuta in un mondo di contrasti, di luce che rincorre l’ombra in una giostra lanciata verso il buio dell’inferno. La voglia di scappare, di fuggire lontano, come un ladro che si è impossessato del suo stesso corpo, fa di Nic un novello Dante condannato a vagare nel più profondo dei cerchi infernali per poter risalire a riveder le stelle. Al suo fianco un Virgilio e una Beatrice in formato famiglia, con quel padre che nonostante tutto e tutti lotterà per salvare il figlio, rialzandolo ogni volta che cadrà – fisicamente e metaforicamente – e una matrigna, Karen, impotente dinnanzi allo tsunami emotivo che ha colpito il proprio nido domestico, ma non per questo capace di arrendersi cedendo alla forza del suo impatto.
Poteva essere un film lancinante Beautiful Boy, uno di quelli che ti prende il cuore tra le mani per poi distruggerlo in mille pezzi. Van Groeningen si è lasciato invece ammaliare dall’emulazione del suo film precedente tentandone una seconda riproposizione in chiave drammatica e a tratti salvifica ottenendo come risultato un puzzle non omogeneo e a tratti melenso.