BABYTEETH, la recensione del film di Shannon Murphy

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babyteeth
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Eliza Scanlen in Babyteeth
È un mondo colorato quello di Milla (una sorprendente Eliza Scanlen, già vista in Sharp Objects). Un mondo che la protagonista di Babyteeth, film di debutto di Shannon Murphy, tenta di dipingere con colori accesi, stendendoli sulla tela della vita attraverso risate, balli, abbracci e primi batticuori.
È un mondo in cui non c’è e non deve esserci spazio per una malattia che, inevitabilmente, invade vincente il suo spazio sbiadendo le sue giornate. È un mondo, quello di Milla, che la giovane regista mostra con delicata fragilità traducendo in immagini il caos che regna silente tra le mura di una famiglia perennemente con il fiato sospeso. Ogni respiro di Milla è per i suoi genitori (un commovente e sempre eccellente Ben Mendelsohn e un’ottima Essie Davis) un sospiro di sollievo; per un altro secondo che diventa minuto e infine giorno, la ragazza ha pedinato lo spirito della morte in una lotta per la sopravvivenza che ora più che mai merita di essere combattuta.

La chemio, la forza e la voglia di vivere, hanno ora un nuovo alleato nella figura di Moses, spacciatore e dipendente da stupefacenti che sconvolgerà la vita della ragazza, le farà sentire per la prima volta le farfalle nello stomaco facendola volare nella sfera del sogno e della speranza.
C’è dunque la ragazza malata di cancro che si innamora del ragazzo problematico, andando contro il volere della propria famiglia; alla base di Babyteeth si scorge dunque un impianto narrativo costruito con precario equilibrio sul confine del cliché. Bastava poco, un leggero alito di vento, per cadere nel burrone e sprofondare giù, verso il baratro del sentimentalismo melenso e retorico.
Shannon Murphy sa dove ritrovare i giusti strumenti di protezione e con cosa cucire saldamente il proprio paracadute registico. Babyteeth non è (per fortuna) Colpa delle stelle e nemmeno Città di carta. È un perfetto meccanismo a incastro in cui ritrovare l’essenzialità di sguardo tipica di Andrea Arnold con la dolcezza e il minimalismo formale di Jane Campion.
Commuove senza irritare Babyteeth. Le lacrime scendono veloci come pillole trascinate da brevi sorsi d’acqua con cui annientare il dolore.

Sappiamo l’epilogo verso cui il destino di Milla si sta dirigendo, ne siamo a conoscenza sin dal primo fotogramma, eppure non c’è mai nulla di banale a contornare la sua breve esistenza. Nessuna inutile sequenza infiocchettata di ipocrisia o falso sentimentalismo a confezionare i suoi ultimi, intensi giorni. C’è qualcosa di puro e onesto che traspira dallo sguardo di ripresa di Shannon Murphy. Un abbraccio gentile che unisce i personaggi senza spingere troppo sull’acceleratore delle emozioni, ma guidando sempre in perfetta armonia tra umorismo e commozione.
Lo stile di regia abbonda di piani medi, totali, inquadrature sempre ampie perché incapaci di lasciare Milla da sola. La cinepresa si fa dunque doppio-sguardo di quello dei genitori della ragazza; custode della sua vitalità si erge a guardiana attenta e scudo protettore dagli attacchi esterni pronti a colpirla nel corpo ma soprattutto nell’anima. Cosciente del poco tempo rimaste a disposizione, Milla sa di non essere sola, sente la presenza rassicurante della macchina da presa tanto da smascherarla con sguardi dritti in camera; un’interpellazione spettatoriale la sua che non solo acuisce il senso di empatia e sincera compassione che avvolge l’intera opera, ma enfatizza il coinvolgimento emotivo che investe il pubblico lasciandolo inerme e disarmato.
Milla sa anche di essere amata e la regia della Murphy glielo ricorda costantemente dando vita a un canto della vita eseguito in tutta la sua forza vitale. I fantasmi della depressione sono entità sconosciute; le delusioni amorose, le corde stonate del suo violino, le litigate con i genitori sono loro gli input emozionali che fanno sentire la giovane viva, pronta a colorare un mondo pronto a illuminarsi di oscurità.