THE WATER DIVINER, la recensione

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Dopo anni da protagonista davanti alla macchina da presa, nelle innumerevoli interpretazioni che lo hanno portato a plasmare il proprio fisico, balzando con il peso da un estremo all’altro per esigenze filmiche legate alla natura dei progetti (dal tonico Gladiatore al robusto e corpulento Noah nell’ultima apparizione nel fantasy biblico di Darren Aronowsky), il premio Oscar Russell Crowe, forte di anni di ‘osservazione’ sul campo al fianco dei registi Michael Mann, Ron Howard e del mentore accademico Ridley Scott, con il quale firma un lungo sodalizio artistico diventando il suo attore feticcio, decide di percorrere nuovi orizzonti professionali e di cimentarsi con una materia mai trattata sinora in prima persona: la regia.
The Water Diviner è la pellicola che segna il suo esordio dietro la cinepresa, caratterizzato da atmosfere intense e carico di un imprinting emotivo, attraverso il quale racconta con onestà e lucidità il dramma e le barbarie di uno degli eventi più tragici che ha contraddistinto la storia della Grande Guerra.
Teatro delle oscenità è la città Gallipoli e la sua letale battaglia, della quale i tre figli del protagonista Joshua Connor (Crowe) non hanno fatto mai ritorno, portando la famiglia a maturare il pensiero di una loro tragica scomparsa, dovuta alla prolungata assenza dalla terra natia. Sull’orlo di una speranza sempre accesa nell’animo del padre, contrapposta alla fallace rassegnazione della madre, armato dal coraggio e dall’amore per i suoi cari, decide di partire per un lungo viaggio che lo condurrà fino ai confini mediorientali della città di Istanbul, con il desiderio di scoprire la verità e far luce su quanto accaduto 4 anni prima.
Crowe veste i panni del rabdomante australiano Joshua Connor, un sensitivo in grado di percepire energia attraverso il contatto con la natura, che approda in Turchia, in una terra consacrata dal sangue di tanti giovani innocenti, come i suoi figli, nella quale si trova ad affrontare l’ostilità di un paese “nemico”, gli ostacoli della burocrazia e un popolo refrattario trovando, però, aiuto e sostegno nel maggiore Hasan (Yilmaz Erdogan) che durante il conflitto era schierato sul fronte opposto.
Tratto dall’omonimo romanzo scritto da Andrew Anastasios e Meaghan Wilson Anastiosos, il film è strutturato secondo i canoni classici del genere, erede di un cinema che racconta i periodi più bui della storia mondiale facendo leva sulle vicende intime e personali di uomini con flebili speranze e tanto coraggio.
Agli spettatori più attenti ed esperti non sarà certo sfuggita “l’ambizione”, puramente artistica, del filmmaker neozelandese di ripercorrere i passi di Peter Weir ne Gli anni spezzati, riportando sul grande schermo le gesta eroiche dei giovani australiani nel film che consacrò il celebre regista.
Crowe ripercorre le orme di una narrazione lineare fatta di paesaggi e personaggi, consolidati in un immaginario comune ma con una ricerca molto più personale che si focalizza sul rapporto dei tre fratelli; i numerosi flashback rievocano i tempi felici e i momenti di tensione che rendono, però, il loro legame più forte e consolidato.
C’è una ricerca dello sguardo, attraverso i numerosi primi piani, che sottolinea la natura umana accomunata dall’angoscia e dall’orrore della violenza, ma anche dalla speranza e dalla grande forza di volontà, raccontata attraverso gli occhi di un padre terribilmente afflitto dalla sofferenza per aver abbandonato i figli al loro tragico destino.
Il lungometraggio è girato con cura e sapienza tecnica, passando dai toni più agrodolci a quelli più romantici ed emotivi, equilibrati con sensibilità dal cineasta che riesce nel suo intento di convincere il grande pubblico e a proiettarlo in futuro verso nuovi orizzonti e progetti cinematografici, con la speranza di rivederlo prossimamente al lavoro in un’altra pellicola.
Andrea Rurali & Michela Vasini
 Rating_Cineavatar_3-5