Reader Player One: “Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati” di Ruggero Adamovit e Claudio Bartolini

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Il gotico padano
Gotico Padano

Titolo: Il gotico padano. Dialogo con Pupi Avati

Auttori: Ruggero Adamovit e Claudio Bartolini

Casa editrice: Bietti

Pagine: 263

Prezzo: 17 euro

Era il 2010 quando sugli scaffali delle librerie fa la sua comparsa Il gotico padano: Dialogo con Pupi Avati. Edito dalla casa editrice Le Mani, quel volume firmato da Ruggero Adamovit e Claudio Bartolini diviene in ben presto un testo imprescindibile nella biblioteca di ogni appassionato del regista bolognese. A nove anni di distanza, in occasione del grande ritorno sul grande schermo del lato gotico (ma sempre padano) di Pupi Avati con Il signor diavolo, i due autori riprendono in mano il proprio testo, lo modificano arricchendolo di nuovi spunti di riflessioni e, soprattutto, di interventi di prestigio come la prefazione firmata dallo stesso Avati, e la postfazione di Lino Capolicchio.
Si può migliorare un prodotto che è già ottimo? A quanto pare sì, come dimostra il caso de Il gotico padano disponibile ovunque grazie alla casa editrice Bietti. Dopo un breve e indispensabile prologo dedicato al territorio emiliano-romagnolo e alle personalità che lo hanno attraversato, o che lì vi sono nate, con agilità Adamovit e Bartolini si immergono nel cuore della regione facendosi largo tra credi, superstizioni, fole e tradizioni radicate nel sottosuolo emiliano-romagnolo. Con dovizia di particolari e lucide spiegazioni (senza per questo cadere nell’eccessivo didascalismo) i due autori rivelano una lunga e approfondita ricerca che per chi è nato e cresciuto tra le lunghe spiagge romagnole, o tra la fitta nebbia della bassa, potrebbero risultare scontate, ma per chi invece si approccia per la prima volta a questo mondo diventano tesori imprescindibili per rileggere in ottica nuova la produzione gotico-padana di stampo avatiano. Dopotutto, per una produzione così direttamente correlata alla terra da cui trae origini, i due autori non si risparmiano nel tracciare il proprio campo d’analisi con rimandi diretti a quell’universo di simboli e credenze destinato a perdersi negli anni, offrendo una conoscenza preventiva ai propri lettori circa il mondo perturbante che andranno ad affrontare nell’opera di Avati tra segni archetipici, premonizioni e mostruosità nascoste dietro le mura domestiche.
Suddiviso in due parti (“Pupi Avati ha paura”; “Pupi Avati fa paura”) il libro offre una visione parallela e speculare circa questo mondo così atavicamente accattivante, come quello dei morti a contatto con i vivi e la paura in perpetuo agguato. Nella prima parte si traccia dunque il background folkloristico e socio-culturale in cui è cresciuto Pupi Avati e che tanto ha influenzato la propria visione artistica (e confluito perfettamente ne Le strelle nel fosso). Nella seconda parte verranno analizzati quei figli nati in seno all’assimilazione e interiorizzazione di quei mondi. Dagli esordi deludenti di Balsamus, l’uomo di Satana e Thomas e gli indemoniati (tentativi giovanili di ribellarsi ai topoi del genere gotico-horror), passando per i grandi cult de La casa dalle finestre che ridono e Zeder (dittico sviluppato sulla logica del contrasto, tra orrore dichiarato e serenità apparente) al Tutti defunti… tranne i morti (opera che ribalta in chiave parodistica quelle cifre stilistiche concepite dallo stesso Avati) arrivando infine alle sceneggiature scritte insieme al fratello Antonio per altri registi e al ritorno del gotico padano in versione riattualizzata sul grande schermo con L’arcano incantatore e il recente Il signor diavolo, quello messo in atto dalla coppia Adamovit-Bartolini è un excursus preciso, oggettivo, interessante, imperdibile tra gli interstizi di questo sotto-genere tutto italiano (anzi, padano).
L’analisi critica, dispiegata con semplicità e sempre ben contestualizzata a esempi pratici, ricavati direttamente dalle opere di Avati, è intervallata da testimonianze, ricordi e contributi a firma dello stesso regista che vanno a confermare quanto avanzato teoricamente dai due autori. A infarcire ulteriormente un lavoro ben congegnato sono anche i continui rimandi ad altre opere che fungono da ponte con i vari generi cinematografici attraversati, ribaltati, o solamente sfiorati da Pupi Avati. I film di Margheriti, Bava, Freda diventano dei punti di incontro e termini di paragone con cui stabilire quanto il regista bolognese si sia avvicinato, o  allontanato, dal genere horror-gotico, per poi personalizzare la sua produzione filmica di quell’incanto primordiale germogliato dalla terra in cui è cresciuto.
La riedizione di Il gotico padano rende dunque ancora più unico un lavoro già di per sé lodevole, sebbene qualche passaggio risulti ridondante a causa di un’eccessiva ripetizione. Si tratta comunque di una piccolezza del tutto giustificabile all’impianto critico che di certo non discredita un’opera imperdibile per tutti gli amanti di Pupi Avati e non solo.