VI PRESENTO TONI ERDMANN, la recensione del film di Maren Ade

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Vi presento toni erdmann recensione
Ti presento Toni Erdmann recensione
Il poster italiano di Vi presento Toni Erdmann
Nell’approcciarmi a scrivere di Vi Presento Toni Erdmann, cui non si può riconoscere, malgrado tutto, l’assoluta originalità, o meglio l’eccentrica unicità con cui spunta come un fungo nel bosco delle pellicole dell’ultimo anno, non mi limiterò ad un punto di vista meramente critico. Si tratterà piuttosto di formulare una meta-critica, nel senso più banale di una critica della critica (cinematografica), dal momento che, in linea di massima, il fenomeno più difficile da comprendere è, per me, l’entusiasmo di massa che lo ha prima acclamato come più papabile vincitore della Palma d’oro a Cannes (poi vinta da Ken Loach), poi come film più importante dell’anno sulla più prestigiosa delle riviste europee, Les cahiers du cinéma.
Si tratta sicuramente di un’opera senza precedenti linguistici e formali, ma non altrettanto nuova per quanto riguarda il contenuto della trama. È infatti una commedia esistenziale in cui Winfried, ex insegnante di musica in pensione nonché simpatico sessantacinquenne che occupa la propria quotidianità tra scherzi e farse, penetra nella grigia vita della figlia Ines, consulente aziendale in carriera. Lo fa dapprima con la propria identità e poi mascherato (con parrucca in stile Donald Trump e dentiera prominente) dal coach Toni Erdmann, portando così il brio e la vivacità di un’inedita prospettiva ad una vita assorbita dalla routine lavorativa.
Vi presento toni erdmann recensione
Vi presento Toni Erdmann
In poche parole, non sarebbe nulla di diverso da una commedia americana tradizionale degli anni ’90, in cui risiedeva ancora la mitologia dell’abbandono del posto fisso e della ricerca di una qualche forma libera di esistenza – mentre l’utopia degli anni 2010 è chiaramente lo stesso posto fisso di “zaloniana” memoria – se non fosse per lo stile registico adottato. Dove l’autrice tedesca si è decisa per un ritmo ed un’austerità cromatica alla Dardenne, con pedinamento neorealistico dei personaggi, che smorza, rallenta e decostruisce qualsiasi possibile comicità. Su tutte, indicativa è la lunga sequenza in cui Ines, non riuscendo a infilarsi un vestito per la sua festa di compleanno, è costretta a simulare un naked party per fare team building in azienda. Durasse cinque minuti, pur non essendo proprio una trovata alla Billy Wilder strapperebbe sicuramente qualche risata. Ma sfiorando i venti, estenua inutilmente lo spettatore.
Insomma, se l’originalità del film sta proprio nel rapporto non sincrono tra contenuto e forma, che in ogni modo non è così radicale da trasformarsi in una precisa dichiarazione di poetica visiva (com’era per il Dogma degli anni ’90), questo stesso legame non permette di andare oltre, approdando ad un nuovo senso del cinema (e della vita). Quel che c’è dietro è un racconto piuttosto semplice e asettico, che tale sarebbe rimasto con un altro ritmo ed un’altra forma. Che la critica cinematografica, ormai stanca, non si sforzi più di interpretare film culturalmente complessi come l’ultimo Scorsese, Silence, ma vada in visibilio per prodotti come questo è un problema di cui parleremo approfonditamente in altri interventi.
Giancarlo Grossi

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