Venezia 73: THE BLEEDER di Philippe Falardeau, la recensione

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The Bleeder - Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
The Bleeder - Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
The Bleeder - Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
The Bleeder – Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
The Bleeder, presentato Fuori concorso alla 73. Mostra del Cinema di Venezia, è l’ultimo lavoro del regista canadese Philippe Falardeau (Monsieur Lazhar) incentrato sulla vita di Chuck Wepner, il pugile che ha ispirato simbolicamente Sylvester Stallone per la creazione del personaggio di Rocky Balboa (e della saga annessa).
Influenzato dalle grandi produzioni del passato, The Bleeder è una pellicola caustica e ironica, dal sapore 80s, che paga l’aderenza ad un genere, quello biografico-sportivo, ormai saturo di lungometraggi sulla boxe.
La parabola del film è un excursus tra le pagine di un cinema dejavu: è la storia di un campione che arriva all’apice della successo, diventando famoso grazie ad un memorabile incontro con Mohammed Ali per il titolo mondiale dei pesi massimi, e lentamente sprofonda nel declino poiché incapace di gestire la propria celebrità, sperperando i propri averi e assecondando i suoi capricci.
Ma Wepner, alias il sanguinolento di Bayonne”, è anche un uomo animato da una grande generosità e ingenuità, caratteristiche che vengono rese al meglio da Liev Schreiber.
L’attore americano risulta molto convincente nel ruolo dell’eroe dall’esistenza tormentata, grosso, ambizioso e desideroso di notorietà. Nei panni del secondo amore di Wepner troviamo invece una Naomi Watts, moglie di Schreiber nella vita reale, quasi irriconoscibile con protesi al seno, parrucca rosso fuoco e magliettine attillate che mostrano le sue curve; un look decisamente lontano da quello sofisticato della diva britannica.
Sin dalle battute iniziali, il film sente l’esigenza di ricalcare, e in qualche modo evocare, un cult del cinema come Rocky, ma fatica ad avvicinarsi a quell’alone epico in quanto troppo distante dalle vicende dei protagonisti. Falardeau sembra non voler scavare fino in fondo nelle scelte dei personaggi e questa gestione incide sulle emozioni e l’indagine introspettiva di Wepner.
The Bleeder soffre, a tratti, di una grammatica narrativa che vive nell’ombra del passato e riflette negli intramontabili racconti di Toro Scatenato, The Wrestler e The Fighter ma nonostante ciò dimostra nella prima parte di possedere un ritmo incalzante e una lettura delle situazioni divertente.
La storia, infatti, ha un enorme potenziale ma la verticalità della trama, classica e lineare, certifica l’ennesima occasione sprecata per tentare di creare un biopic originale, guardando ad autori come Pablo Larrain (Neruda, Jackie) e Danny Boyle (Steve Jobs) che, sulla rotta dell’innovazione, hanno percorso una strada personale.
Lo stile e l’approccio tradizionale sono gli aspetti più riusciti dell’intera opera poiché Falardeau si abbandona a un’estetica imperfetta e flebilmente elegante, tra close-up, inquadrature larghe e una fotografia morbida e granulosa che ricorda le immagini e le pellicole degli anni ’70.
Michela Vasini & Andrea Rurali

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