Velvet Buzzsaw
Jake Gyllenhaal e Rene Russo in un’immagine di Velvet Buzzsaw
Velvet Buzzsaw è un quadro astratto, immagini sparse e ammucchiate che a primo impatto non si riescono a distinguere e comprendere, se non soffermandosi su ogni dettaglio a mente lucida, e ponendosi emotivamente e visivamente a dovuta distanza. Le varie sequenze sono colori gettati sulla tela con violenza e in maniera istintiva, un po’ alla “action painting” di Jackson Pollock. Lo spettatore si ritrova così investito da cronotopi narrativi spezzettati e, all’apparenza, poco armoniosi nella loro unione. Un montaggio di scene che prendono luogo a distanza di tempo l’una dall’altra, separate da ore, o giorni. Nessuna introduzione a presentarci i personaggi. Josephine, Coco, Rhodora, Morf sono nomi che riempiono l’aria che circonda ogni singola persona sulla scena e, ancora una volta, ad associarli al personaggio adatto è lo spettatore. Come un visitatore neofita che si ritrova ad ammirare un’opera contemporanea, senza sapere nulla di arte, ritrovandosi per questo del tutto spaesato e confuso, lo spettatore viene assalito da una sensazione di perdita disturbante sin dall’entrata in scena di Jake Gyllenhaal, in un incipit in medias res, senza prologhi, o presentazioni.
Facciamo la nostra conoscenza con questo mondo colorato, eppure straniante di Velvet Buzzsaw in modo violento, senza intermediazioni, così come violento è lo sviluppo dell’intera pellicola. Dopo la spettacolarizzazione della morte, e lo sfruttamento dell’istinto voyeuristico portato alla massima potenza da parte dei produttori televisivi in Nightcrawler, Dan Gilroy entra nel perverso meccanismo di un’altra forma d’arte, la più pura, come quella visiva. Un universo soggiogato dall’egoismo, come sottolineato dalle inquadrature sempre ristrette e poco convoglianti a ritrarre nello stesso spazio più di un personaggio, se non per scopi meramente personali e comi di ambizione. “Ogni pezzo d’arte è pericoloso” dice Rhodora a Morf, e così chi si ritrova a speculare su di essa finirà per rischiare la propria vita in una roulette russa in formato esibizione artistica. Dai galleristi, ai critici, passando per gli agenti e gli artisti stessi, nessuno si salva dall’attacco di Gilroy verso coloro che alla bellezza di un’opera d’arte, e ai suoi valori intrinsechi, preferisce guadagno e ricchezza.

Velvet Buzzsaw

L’arte nasce per emozionare e comunicare direttamente con la parte più inconscia e nascosta di noi. Quella di Dease è un’arte maledetta, non solo perché capace di suscitare sentimenti, ma anche e soprattutto in quanto abile a manipolare i pensieri di chi incrocia il proprio sguardo con le stesure di colore. Dietro alla natura misteriosa di questo fantomatico artista, si nasconde un uomo dall’animo tormentato e dal corpo torturato. Attraverso i suoi quadri egli cerca vendetta, colpendo chiunque ne sia in possesso con la stessa violenza con cui è stata caratterizzata la propria vita. Per una mente come Gilroy che non lascia nulla al caso, anche il nome dell’artista serve a prefigurare l’aura di morte e mistero che si aliena nei suoi dipinti. Dease ricorda infatti il termine “disease” ovvero “malattia”; ma Dease, prima ancora di essere un artista era un veterano di guerra, un dettaglio che lo accomuna a un altro Dease, personaggio storico realmente esistito e sconosciuto ai più: il tenente Maurice Dease, che a ventiquattro anni sacrificò la propria vita nel tentativo di salvare l’esercito inglese a Mons, in Belgio.
Il cinema e ancor prima la letteratura (soprattutto di matrice gotica) amano sfruttare il tema del dipinto come strumento riverberante sacrilegi e pericoli: si pensi a Il ritratto di Dorian Gray, The Conjuring 2, The Devil’s Candy, o Vertigo. Se a livello narrativo Gilroy non aggiunge nulla di nuovo al materiale di archivio, a livello visivo è interessante notare il modo in cui il regista tratta ogni singola inquadratura come un dipinto. Gli sguardi in camera di osservatori increduli e totalmente attratti dai disegni che si offrono loro davanti; una fotografia inizialmente accesa, tipica da pop-art e poco consona al canonico scarto tra luci e ombre tipiche del thriller, che finisce per ammantarsi di palette sempre più scure e caricate di mistero. Quando ti ritrovi ad affrontare un mondo come quello del thriller, elevando a oggetto del mistero l’arte figurativa, la percentuale di cadere in classici cliché e luoghi comuni è alta. Dan Gilroy, forse volutamente, prende in prestito tutta quell’oggettistica che ha abitato i set dei film dell’orrore e del thriller, così da riempire i propri fotogrammi e prendersi gioco di questo universo cinematografico, alimentando al contempo la sua vena satirica. Dipinti che prendono inspiegabilmente fuoco e che sembrano posseduti da forze soprannaturali; bambole inquietanti e viventi; proiettori che continuano a funzionare mostrando una sequela di diapositive capaci di far sussultare chiunque vi si trovi davanti (e il riferimento a I.T. è palese). Ad acuire l’intento parodistico di Velvet Buzzsaw sono le convincenti prove attoriali offerte dai protagonisti, in particolare quelle del sempre ottimo Jake Gyllenhaal nei panni del critico Morf Vandewalt (sebbene le urla isteriche della fase finale del film lo portano verso il baratro dell’over-acting) e di Toni Colette e Rene Russo, felina e supponente, e per questo perfettamente calata nella parte della spietata Rhodora Haze.

Il risultato che ne deriva è un film interessante, ma non soddisfacente al 100%. C’è qualcosa che non funziona completamente in questo meccanismo rodatissimo. Una tonalità mal sfumata e un po’ in contrasto con il resto della tela; un dettaglio che stride in un quadro bello, ma non appagante, da guardare e riguardare per comprenderlo appieno, senza riuscirci mai.