TUTTI LO SANNO, la recensione del film di Asghar Farhadi

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Javier Bardem and Penélope Cruz in Tutti lo sanno (2018)
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Javier Bardem and Penélope Cruz in Tutti lo sanno (2018)
Selezionato come film d’apertura della 71esima edizione del Festival di Cannes, Tutti lo sanno è l’ultima, attesa opera di Asghar Farhadi. Il regista iraniano, insignito due volte del premio Oscar per il miglior film straniero con Una separazione (2011) e Il cliente (2016), si allontana per la prima volta totalmente dalla terra natia per girare un dramma dal sapore internazionale (trattasi infatti di una coproduzione spagnola, francese e italiana) e con un cast di grande richiamo.
Il racconto, mescolando sapientemente elementi mistery con i toni più elevati del cinema d’autore, vede protagonista Laura (Penélope Cruz), moglie di Alejandro (Ricardo Darín), che torna con i due figli al proprio paese d’origine per la celebrazione del matrimonio della sorella. La scomparsa della figlia Irene e l’incontro con la vecchia fiamma Paco (Javier Bardem) faranno riemergere vecchi dissapori e metteranno in crisi l’illusorio equilibrio che reggeva i rapporti umani all’interno della famiglia.
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Javier Bardem and Penélope Cruz in Tutti lo sanno (2018)
Tutti lo sanno è stato annunciato dapprima come l’ennesimo ed imperdibile capolavoro di Farhadi, per poi essere da molti stroncato con veemenza. Se si cerca coerenza e continuità con i suoi film precedenti non si può non rimanere soddisfatti dalla prosecuzione di un impianto visivo e narrativo ormai consolidato. A chi lo vive in maniera più distaccata, invece, l’estenuante reiterazione di motivi estetici e snodi dell’intreccio (tanto tra un film e l’altro quanto all’interno della medesima pellicola) comunica una sensazione di ampollosa autoreferenzialità che alla lunga può stancare.
Tra le note più interessanti di Tutti lo sanno troviamo la cura minuziosa per i particolari e la precisa calibrazione di tutti gli ingredienti della ricetta: la messa in scena è rigorosa, i tempi di espressione concessi a ciascun personaggio e quelli del racconto sono quasi scientifici, gli stacchi di montaggio assolvono alla perfezione la funzione di cambio di tono che il regista si propone. La derivazione teatrale fin troppo evidente e la classica freddezza, sia registica sia nell’espressione di un giudizio su un qualsivoglia tema o personaggio, palesano un’artificiosità forse eccessiva e sicuramente ridondante.
Per dirla senza troppi fronzoli, sono circa dieci anni che Farhadi gira sempre film costruiti nella stessa maniera, per numerosi aspetti ineccepibili ma a tratti (sempre più lunghi con il passare del tempo) estenuanti.