THE VATICAN TAPES, la recensione

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In una parentesi cinematografica in cui il genere del mockumentario e la tecnica del found-footage sono stati spremuti fino all’osso e utilizzati anche nel contesto di pellicole che non avevano alcun motivo di usufruirne, viene alla luce un film appartenente al filone esorcistico che, sulla base di una struttura fin troppo classica, avrebbe invece meritato di essere trattato con maggiore audacia e spirito autentico.
Non si può certo dire che la carriera registica dello statunitense Mark Neveldine sia andata migliorando negli anni. Fattosi notare dal pubblico del cinema underground per aver scritto e diretto, insieme al collega Brian Taylor, il delirante Crank (2006), fortunata pellicola action con protagonista Jason Statham, e il successivo Crank: High Voltage (2009), Neveldine ha poi contribuito alla realizzazione del meno riuscito Gamer (2009) e del disastroso Ghost Rider-Spirito di Vendetta (2012). Arrivati ad oggi, The Vatican Tapes è la sua prima opera in solitaria che, però, non riesce sfortunatamente a sottrarsi a questa apparente discesa nell’oblio.

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È innegabile che l’idea di prendere come spunto narrativo il vasto archivio del Vaticano, contenente gli innumerevoli casi di possessioni demoniache e conseguenti esorcismi, risulti in qualche modo intrigante e aperta a svariate possibilità di sviluppo. Tuttavia, The Vatican Tapes sceglie la strada più semplice e battuta, cioè il focalizzarsi su un singolo caso di possessione (come la maggior parte dei film che lo hanno preceduto) a discapito della possibilità di scavare nell’operato di un ‘rappresentante’ della Chiesa Cattolica che, agli occhi del mondo intero, appare sotto molti aspetti ancora avvolta nel mistero. La pellicola di Neveldine, malgrado l’evocativo titolo, pecca nell’analizzare il punto di vista meno interessante ed efficace, cioè quello della posseduta rispetto alla posizione dell’esorcista, vera figura alla quale è indirizzata la curiosità dello spettatore, completamente assorbita dalla sua pericolosa dimensione professionale.
Il caso della giovane Angela Holmes (Olivia Dudley) presenta caratteristiche comuni a tutti quelli portati finora sul grande schermo, fatta eccezione per il singolare e cinico finale aperto che spiana la via a interessanti elucubrazioni sul tema della fede, il concetto di miracolo e l’evidente fascino del maligno sulla debolezza dell’Uomo. Peccato che i restanti 85 minuti di film, nonostante una loro solida coerenza interna, trabocchino di situazioni e meccaniche trite e ritrite, prosciugate di ogni forma di tensione e condite con alcuni dialoghi senza un chiaro sbocco concettuale. Dispiace inoltre che il buon Michael Peña, reduce dall’aver trovato una propria inaspettata vena comica in Ant-Man (2015) di Peyton Reed, arranchi in maniera palese per essere stato collocato all’interno di una pellicola che, complice anche una regia dei personaggi a tratti superficiale, non risulta in grado di valorizzare le sue doti drammatiche.
Giulio Burini
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