THE HAPPY PRINCE – L’ultimo ritratto di Oscar Wilde, la recensione

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Rupert Everett in The Happy Prince (2018)
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Rupert Everett in The Happy Prince (2018)
“Poiché non è più bella a vedersi, non è più nemmeno utile”.
Con questa sentenza Oscar Wilde riassumeva il sentimento comune nei confronti della statua del Principe Felice nel racconto di apertura della raccolta di fiabe per bambini The Happy Prince and Other Tales, pubblicata nel 1888. Parole dal suono tremendamente profetico, dal momento che possono essere impiegate per descrivere il giudizio del mondo nei confronti dello stesso Wilde durante gli ultimi anni di vita.
Proprio il periodo compreso tra il 1895, anno del processo e dell’incarcerazione per sodomia, e il 30 novembre del 1900, data di morte dello scrittore irlandese, è lo sfondo scelto Rupert Everett (nei panni dello stesso Wilde) per il suo debutto alla sceneggiatura e alla regia.
The Happy Prince – L’ultimo ritratto di Oscar Wilde è un film ambizioso, che si propone di mostrare con accuratezza storica l’esilio e le ultime peregrinazioni del dandy più celebre della storia, ma che al contempo vuole far emergere, con esito positivo, il titanico spessore di un uomo che si dirige consapevolmente verso la propria rovina e quello delle persone che, in totale balia del suo fascino, lo hanno accompagnato negli ultimi anni della sua esistenza.
The Happy Prince recensione
Rupert Everett e Colin Morgan in The Happy Prince (2018)
Benché il resoconto degli eventi sia troppo didascalico, alleviato soltanto in parte da una cornice narrativa che talvolta congiunge sogno e veglia, ricordo del passato e presente, fiaba e realtà, il lungometraggio presenta momenti cinematografici significativi ed importanti. Fra tutti, un’enfatica performance canora in un losco locale parigino ed uno splendido piano sequenza di una declamazione poetica ad una cena. Destabilizzante (e piacevole) è il limbo nel quale si trova lo spettatore: in un primo momento si sorride con leggerezza per la raffinata ironia dei dialoghi, l’attimo dopo si prova malinconia e attrazione per la straordinaria personalità di un uomo in preda a quelli che egli stesso definiva “i suoi momenti purpurei”, tendenzialmente a base di cocaina e assenzio, per poi essere travolti da grande tristezza dinnanzi all’auto-distruzione e per come il mondo lo ha rifiutato (e, come si vedrà, per come lui ha rifiutato il mondo). Emerge poi la grande profondità psicologica e umana con cui viene raccontata la deleteria relazione tra Wilde e Alfred “Bosie” Douglas (Colin Morgan), storico amante dello scrittore: lo stereotipo culturale del rapporto amore-odio tra il mentore saggio più anziano ed il seguace giovane, bello e dai tratti puliti, è senza dubbio uno degli elementi più riusciti della pellicola.
Il film lascia una complessiva sensazione di incompiutezza: una conseguenza inevitabile considerando il quantitativo consistente di materiale biografico utilizzato per costruire la narrazione. Tuttavia, non si può negare che la commistione di ironia, classe, tragedia e malinconia, aspetti dominanti tanto nel film quanto nella natura di Oscar Wilde, renda The Happy Prince uno dei biopic più affascinanti dell’ultimo periodo.
Marco Tomasoni