Dieci anni fa, nel 2008, usciva al cinema Cloverfield, un “found footage” di cui non si sapeva praticamente nulla. Le poche immagini circolate erano confuse, il marketing virale coscientemente vago e fumoso.
J. J. Abrams, che nel campo non è secondo a nessuno, aveva gestito l’operazione occulta e stava per scatenare un fenomeno che, pur con soli tre film in un decennio, sarebbe diventato un vero e proprio culto.
Il primo lungometraggio, diretto da Matt Reeves, non è particolarmente memorabile. Nulla che – esclusa la campagna di marketing virale – lasci davvero il segno nella storia del cinema. Il progetto che ne sarebbe nato, originando nel frattempo anche un seguito eccezionale scritto da un Damien Chazelle pre-La La Land, meriterebbe invece una riflessione ben più approfondita.
ANTOLOGIE
Il fatto che un filmmaker affermato come Abrams dia la possibilità a giovani sceneggiatori e registi di creare storie da distribuire sotto il marchio Cloverfield è qualcosa di encomiabile. Certo, è tutto marketing, non si lavora solo per amore dell’arte, ma de facto queste opportunità vengono date. Esse pongono sotto i riflettori film che uscirebbero in sordina, rendendo ben visibili piccoli prodotti altrimenti sconosciuti.
10 Cloverfield Lane non nacque come un seguito di Cloverfield, ma fu adattato durante la produzione. Funzionò perfettamente: una storia che viveva di luce propria, scollegata dal primo film, ma che ne condivideva alcuni tratti dell’atmosfera generale. E’ accaduto lo stesso per questo terzo capitolo, almeno fino al punto in cui è diventato un film della serie.
Ma andiamo con ordine.
Quello stesso progetto ha portato oggi su Netflix The Cloverfield Paradox, che nella sua brevissima (non più di un paio d’ore!) ed efficacissima campagna marketing ha promesso di collegare le trame dei vari episodi.
Vediamo perché si tratta di una promessa non del tutto mantenuta…
PUNTO DI NON RITORNO
The Cloverfield Paradox prende il via un decennio nel futuro su una stazione spaziale, la Cloverfield Station. Un gruppo internazionale di scienziati e ingegneri sta lavorando a un acceleratore di particelle per risolvere la crisi energetica che ha investito il pianeta e rischia di innescare una guerra mondiale.
Tra loro c’è Ava Hamilton (Gugu Mbatha-Raw), che ha lasciato il marito sulla Terra e si porta dietro il fantasma della perdita dei figli, avvenuta incidentalmente a causa sua.
Durante l’ennesimo esperimento, con il gruppo fiaccato da mesi e mesi di tentativi falliti, qualcosa va storto e la Terra sparisce dalla loro vista.
Ben presto capiranno di essere loro a essersi spostati, non il pianeta, mentre a bordo accadono cose del tutto inspiegabili.
Fin qui, manco a dirlo, tutto bene. Nulla di epocale, ma un buon film come tanti altri con una trama simile.
Il cast, tutto ottimo, mette in scena personaggi gestiti in modo credibile. Visivamente non c’è molto da eccepire: pur non brillando per originalità, la regia di Julius Onah e la fotografia di Dan Mindel portano sullo schermo uno spettacolo notevole di luci e atmosfere. Il film ha anche un ritmo sostenuto, seppur affrettato in certi frangenti.
Ma dove pecca davvero è nella sceneggiatura di Oren Uziel, nelle radici dei personaggi, nelle loro relazioni e in certi aspetti dello svolgimento dell’eccellente idea iniziale. Troppe cose sono buttate in scena senza avere nessun tipo di spiegazione o punto d’arrivo. Ad acuire la sensazione c’è poi la volontà posticcia di voler far quadrare il film nell’universo Cloverfield.
C’è un eccesso di sequenze in cui le informazioni vengono date da fonti esterne (servizi del tg, sms, telefonate). Informazioni che risultano sbattute in faccia al pubblico in maniera non organica alla storia.
Tutto ciò va a tirare la corda che si ricollega al franchise senza aggiungere nulla alla vicenda. Dall’inutile sottotrama terrestre a un finale che poteva essere brillante, se gestito con più sottigliezza, il film non riesce a portare a termine con coerenza tutto ciò che inizia.
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