Spider-Man: Homecoming è un doppio ritorno a casa.
Il primo deriva dalla gestione dei diritti di sfruttamento (parziali) del personaggio, ora in mano ai Marvel Studios in seguito ad un accordo con Sony Pictures. Il secondo, e ben più importante per lo spettatore, è un ritorno all’essenza del personaggio.
Il regista Jon Watts, assieme al suo team di sceneggiatori, non ha creato il miglior cinecomic su Spider-Man, bensì l’adattamento cinematografico più vicino allo spirito dell’arrampicamuri.
Tra cloni, universi alternativi, emuli e versioni future, lo Spider-Man dei fumetti ha cambiato più volte la sua natura. Lo stesso Peter Parker è stato, in 60 anni di storie, un ragazzino, un giovane giornalista, un adulto professore e un padre.
Insomma, è pressoché impossibile definire che cosa sia dal punto di vista estetico il personaggio. È invece molto semplice ritrovarne l’identità che lega tutte le incarnazioni fumettistiche. Spider-Man: Homecoming conosce il personaggio, ne disegna i confini e, sebbene ambienti la storia in un mondo lontano da quello stampato sui comics, gli resta totalmente fedele.
In un celebre monologo di Kill Bill, la sceneggiatura di Quentin Tarantino raccontava come gran parte del fascino di Superman venisse dal fatto che l’identità di Clark Kent, in realtà, fosse solo una copertura. Non il contrario. È Superman che si nasconde, diventando il debole giornalista del Daily Planet. Jon Watts sembra partire proprio da questo spunto per svilupparlo secondo i canoni Marvel. Il protagonista non è un superuomo che viene dal cielo, ma un normale ragazzo dalla strada. L’identità segreta non è altro che un rifugio da una vita verso la quale Peter si sente inadeguato. La sfida più grande che l’eroe deve affrontare non è tanto sconfiggere il villain di turno ma scoprire sé stesso. Il tema dell’’identità come eroe e come persona è al centro del film: il costume da supereroe, la maschera, non sono altro che il sogno di una vita tra i grandi, nei luoghi che contano. Spider-Man è un lato della personalità di Peter quasi onirico. Il costume è il sogno di ogni ragazzo, che permette di essere “diversi”. Nasconde le insicurezze, diventa una scusa per fuggire di fronte alla propria inadeguatezza nella società. La maschera è un velo che separa un’identità ideale dai problemi reali, concreti, della vita.
Gli sceneggiatori costruiscono infatti un encomiabile parallelismo tra i problemi della quotidianità e i drammi da supereroe. Affrontare il papà della ragazza che gli piace diventa per il giovane Parker un’impresa ardua quanto fermare il suo avversario volante. Spider-Man ha un padre, un mentore, (Tony Stark) da cui desidera emanciparsi. Peter ha una madre (Zia May) con la quale non riesce più a comunicare come quando era bambino.
Per raccontare la giovinezza, l’approdo nei pressi del cinema di John Hughes (Breakfast Club, Una pazza giornata di vacanza) era un passaggio non scontato ma, visto il risultato, quasi obbligato. Nei classici College Movie, infatti, al centro delle vicende non ci sono avventure mirabolanti, ma piccoli dilemmi quotidiani. Per questo motivo Spider-Man: Homecoming riesce a stupire e a trovare livelli di profondità inaspettati proprio quando mette da parte l’azione, che risulta la parte più debole.
Il tono del film non è infatti così netto come nei primi due cinecomic diretti da Sam Raimi e l’azione non riesce ad avere la stessa consistenza plastica, la stessa vicinanza alla brutalità dei combattimenti. Le ragioni di questa mancanza sono duplici: l’insistente uso della computer grafica nelle grandi produzioni contemporanee rende tutto più morbido, elastico, ma meno concreto. L’occhio allenato riesce a riconoscere una scena ben orchestrata con gli stunt da un movimento riprodotto al computer. Il secondo motivo è legato al percorso di crescita del personaggio: in questo primo capitolo le sfide che il giovane eroe deve affrontare sono assai distanti dall’epicità galattica degli Avengers.
Stilisticamente più simile alle serie Marvel/Netflix, Spider-Man: Homecoming si sofferma sulle conseguenze sulla città della più piccola zuffa tra super esseri. Non è poco, se torniamo con la mente ai precedenti cinecomic in cui intere città venivano distrutte. In questi film i registi sembrano spesso avere più a cuore la sorte dei palazzi rispetto a quella dei civili. In Homecoming è il contrario, pur non riuscendo a raggiungere quel senso di pericolo che avrebbe giovato dal punto di vista emotivo.
Michael Keaton interpreta l’Avvoltoio. È un villain finalmente chiaro nelle sue motivazioni, a cui viene dedicato molto tempo sullo schermo. Sicuramente è tra i 3-4 cattivi della Marvel più incisivi. Gran parte del merito va però alla statura drammatica dell’attore e non alla sceneggiatura. Keaton dimostra, in una scena tesa ed esilarante, giocata sulla pura recitazione e sull’interazione con Tom Holland, di sapere creare una tridimensionalità psicologica invidiabile.
Spider-Man: Homecoming non è il film dell’Uomo Ragno perfetto, ci sono ancora molti aspetti da migliorare a livello di pathos. Soprattutto nel terzo atto alcuni momenti drammatici non riescono a concretizzare tutto ciò che propongono. È anche vero che il film è dedicato ad un pubblico estremamente giovane che potrà seguire la propria crescita nella vita reale in parallelo a quella dell’amichevole Uomo Ragno di quartiere. Homecoming è invece il film di Spider-Man più Marvel, più classico, e più fedele, che i fan si potessero aspettare.
Se interpretato come un film di formazione, incentrato su un ragazzo e non su un eroe, in cui le difficoltà vengono dall’accettare sé stessi, più che dal prevalere sugli altri, Homecoming è un ottimo regalo alle nuove generazioni.
In particolare sul finale, quel bacio non dato, quei problemi da risolvere, quelle amicizie consolidate, sono un abbraccio a tutti coloro che si sentono imperfetti ma che sognano ad occhi aperti di potere volteggiare tra i palazzi di New York. È vita vera che entra nella fantasia.