SONG TO SONG, la recensione del film di Terrence Malick

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Il poster italiano di Song to Song
Si fa un gran parlare della condizione del cinema contemporaneo. I commentatori si dividono spesso tra gli apocalittici, i cantori della fine del cinema, e i nostalgici secondo i quali, ogni prodotto visto in sala, non può eguagliare i classici del passato. Gli altri, la maggioranza silenziosa, a cui appartiene una buona fetta di pubblico, prendono il cinema volta per volta, film per film, con cauto ottimismo e con un sano gusto della scoperta. Questi ultimi non hanno però, dalla loro, l’eco mediatico sufficiente per emergere nel rumore di fondo dei ragionamenti da social media.
Con Terrence Malick e in particolare con Song to Song, si è perso di vista il gusto dell’analisi critica. Il metro di giudizio adottato per valutare l’opera del cineasta texano sembra essersi diviso in una dicotomica alternativa tra il fantozziano “cagata pazzesca” e l’esaltazione a capolavoro assoluto (con quel giudizio un po’ snob di chi accusa il pubblico di “non capire”). Ci si diverte molto, non c’è che dire, a commentare, a entrare i drammi o le estasi che la visione può comportare. Questa usanza ormai popolare tra gli avvezzi di cinema, che sembra all’origine di una guerra civile teatrale e farlocca quanto rumorosa, ammazza l’esercizio della ragione e il lavoro critico.
Quello che non si dice è che, il giudizio nei confronti di Song to Song, così come del Malick post The Tree of Life, è quanto mai soggettivo e legato ad un cocktail di aspettative, condizioni emotive pre-visione, e predisposizione ad una fruizione lenta. Non ci sono mezze misure, questo è vero, è un cinema da prendere o lasciare ma indubbiamente capace di suscitare emozioni nettissime (anche il disprezzo è un sentimento) e di porsi al centro del dibattito sulla settima arte.
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Rooney Mara e Ryan Gosling in una foto di Song to Song
Song to Song è, innanzitutto un film di rottura. In un’epoca ritmata dai sequel, dall’estetica uniforme e priva di autorialità, Malick riesce ancora una volta a fare un film totalmente personale, pienamente originale (tranne che nei confronti di sé stesso) e inafferrabile. Da The Tree of Life, la filmografia di Malick si è, letteralmente, diramata in una tetralogia sull’essenza dell’uomo. Il regista si pone come un documentarista dell’umanità. Egli sembra raccontare ad una razza distante dalla nostra, forse aliena, i moti d’animo degli abitanti della terra. Lo stile fluido delle riprese, ancora il punto di vista ad una corrente immateriale, che circonda i protagonisti girandoli intorno, avvicinandosi e ritraendosi, come sballottato da un mare in tempesta. Malick taglia dalla trama qualsiasi elemento lineare, riduce al minimo l’aspetto narrativo, per proporre una rappresentazione visiva del flusso di coscienza. Tutto inizia da una constatazione sull’amore, sulla fiamma della vita, da parte di Faye (Rooney Mara). Quello che segue è una sorta di libero pensiero filmico, che balza nello spazio e nel tempo. Tutto viene mostrato, nulla viene detto. I pensieri, spesso rappresentati come frasi lapidarie del voice over, non sono la chiave di lettura bensì la fiamma che attiva il viaggio psichico. La fotografia di Emmanuel Lubezki, si sofferma sui piccoli dettagli della messa in scena (i piccoli tic, i gesti spontanei come toccarsi i capelli o il grattarsi) per trasmettere una sensazione di autenticità difficilmente ritrovatile su altri set.
Al centro della storia sono le vite di due musicisti e un produttore. I personaggi assomigliano più a tipi umani, che a caratteri scenici, servono come attivatori dell’amore e delle sue distorsioni. Song to Song prende le mosse dall’amore sessuale, disperato e male indirizzato, per passare poi a quello autentico, ma difficilmente riconoscibile. L’amore dell’uomo per l’altro e per sé stesso è origine dell’egoismo e della pietà così come del perdono e della fratellanza. Di canzone in canzone, di anima in anima, la festa della vita si fa amara proprio nel momento di massimo successo. La semplicità dell’esistenza, le piccolezze della quotidianità sono promotori di una bellezza assoluta, sciolta da qualsiasi legame e dalle ragioni.
Song to Song, di Terrence Malick
Rooney Mara, Michael Fassbender e Ryan Gosling in un’immagine di Song to Song
Song to Song è un’opera criptica e, a tratti, difficile da seguire. Il cineasta di Ottawa sembra volere portare all’estremo le potenzialità del mezzo cinema, avvicinandosi all’arte visiva d’avanguardia. Egli frammenta i punti di vista, infrange le regole di campo e di montaggio. Le riprese con il grandangolo deformano le figure, i fotogrammi sgranano. È la possibilità del cinema di conoscere la realtà che si incontra con il limite del pixel. È la forza dell’audiovisivo di superare la rappresentazione del reale con un campo di visione maggiore di quello a disposizione degli occhi umani, con la possibilità di rallentare il tempo o rivivere uno stesso momento da più angolature diverse. La poetica di Malick sembra ammettere l’impossibilità del conoscibile, il limite della rappresentazione, abbracciando quindi l’arte della suggestione.
Song to Song, così come gli ultimi lavori del regista, è un film in contrasto con il nostro tempo frenetico, un’opera che rifugge le spiegazioni e lascia allo spettatore il compito di venire attivato e interrogato dalle suggestioni mostrate sullo schermo. È una pellicola che fa della contemplazione la sua unica porta di accesso. E per “contemplare” significa osservare godendo del mistero, liberare il proprio pensiero sulle immagini, venire stimolati da esse a diventare dei filosofi della nostra stessa vita.
È cinema questo? Anche. Deve piacere a tutti? Ovviamente no, è giusto così. Ma credo che, se si smettesse di riderne cinicamente, e si accettasse senza pregiudizio il film, si potrebbe gustare il piacere di un cinema non servito su un piatto pronto. Nell’era della velocità, della fruizione usa e getta, di interpretazioni guidate da “libretti delle istruzioni”, la libertà di Malick può ancora provocare, a qualcuno, una vertigine indimenticabile.

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