SE LA STRADA POTESSE PARLARE, la recensione del film di Barry Jenkins

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Se la strada potesse parlare
Stephan James e KiKi Layne in Se la strada potesse parlare
Se la strada potesse parlare
Stephan James e KiKi Layne in Se la strada potesse parlare
Tish (KiKi Layne) e Fonny (Stephan James) sono amici d’infanzia che, all’improvviso, diventano amanti. Il loro legame è messo alla prova quando Fonny viene falsamente accusato di stupro. Mentre attende di essere processato in carcere, Tish scopre di essere incinta e, con l’aiuto di quelli che la circondano, cerca di farlo liberare prima che nasca il bambino.
Due anni dopo il successo di Moolight agli Oscar, lo sceneggiatore e regista Barry Jenkins porta sullo schermo un nuovo adattamento, questa volta tratto da un romanzo di James Baldwin.
Se la strada potesse parlare ha sicuramente una struttura più tradizionale rispetto a Moonlight, ma comunque infarcita di flashback e di una narrazione poco convenzionale che non sembra soffrire il paragone con il film precedente.
È un lungometraggio sull’amore in ogni sua forma e Jenkins, sapientemente, lo utilizza come collante per ogni azione e respiro della vicenda risultando a tratti stucchevole. La scelta di raccontare la storia travagliata tra i due protagonisti attraverso momenti diversi nel tempo e nello spazio consente di comprendere meglio la relazione principale e tutte le emozioni messe in gioco dai protagonisti, ma in parte influisce sul ritmo altalenante della pellicola.
Se la strada potesse parlare
Stephan James e KiKi Layne in Se la strada potesse parlare
Il film è indubbiamente intrigante nel suo insieme, come già Jenkins ci aveva abituato in Moonlight, e ogni scena è composta a regola d’arte. Il regista confeziona un’opera ricca di immagini persistenti usando il suo talento per l’orchestrazione umana e scegliendo attori perfettamente adatti. Da sottolineare l’ottima scelta di Kiki Layne e Stephan James che, sullo schermo, hanno una chimica e una complicità incredibili: un po’ ci fanno penare per le loro disgrazie, ma giusto quel poco prima di tornare alle smielate inquadrature che caratterizzano l’intero film.
James, soprattutto, ha un impatto incisivo poiché riesce, senza sforzo, a risultare carismatico ma anche visibilmente vulnerabile. Come madre di Tish, Regina King sfoggia una performance misurata, con un senso materno naturale che nasce da un’esigenza di nutrire a un bisogno disperato di proteggere.
Ancora una volta Barry Jenkins, con un’indignazione nemmeno troppo velata, sottolinea come il protagonista Fonny, un uomo di colore in America, è vittima di un sistema crudele architettato contro di lui.  Questo senso di ingiustizia permane costantemente per tutta la pellicola fino a intrecciarsi con la miseria della tristezza per una vita sacrificata e rovinata. Naturalmente, in questo desolante scenario di iniquità e accanimento, il regista pensa di risollevare le sorti del film attraverso l’amore “guaritore” e pacere dell’animo. Questa visione ottimistica della tematica sentimentale si scontra con una narrazione fin troppo verbosa e prolissa in alcuni snodi narrativi che sembrano alquanto artefatti. Qui, infatti, a pagarne le conseguenze è proprio il ritmo altalenante della pellicola.
Nonostante ciò Jenkins riesce a creare non solo un buon prodotto ma anche un’esperienza emotivamente travolgente.