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Mark Wahlberg e Iko Uwais in Red Zone- 22 miglia di fuoco
22 miglia percorse a 22 inquadrature al secondo. Sì, certamente è un’iperbole, ma Peter Berg non fa, nel recente Red Zone, una scelta meno iperbolica: sembra voler superare il celebre trademark di Michael Bay per cui non è disdicevole che un inquadratura abbia un’estensione inferiore a un secondo. Di film d’azione convulsi, francamente, non se ne sente quell’impellente bisogno, anche perché, nel mare magnum produttivo, non sono nemmeno più grande esempio d’una forma di innovazione narrativa che passa per “sperimentazione” registica e di montaggio: ma Berg – quel Berg che pure di risultati più o meno convincenti ne ha forniti (almeno sul piano della forma, l’obiettivo della narrazione è tutto un altro paio di maniche), anche solo a partire da quelli che immediatamente precedono il presente, e cioè Deepwater: Inferno sull’Oceano e Boston: Caccia all’uomo – è evidente che la pensi diversamente, per cui una storiella di intrighi, tripli giochi, spie, supercriminali e superpotenze diventa un incubo accelerato e rutilante in cui è difficile dare forma alle cose. Come si usa dire, allora: dove ci si è persi?
All’interno della carriera di Berg non sta a noi dirlo. Ma dentro a Red Zone perdere la giusta via è di una semplicità disarmante, sia per i protagonisti, sia per chi guarda. Una storia di agenti speciali con dossier segretissimi e zeppi di omissis, intrighi internazionali e altre inquietanti faccende, da che mondo è mondo, dovrebbe avere un certo alone di mistero, una certa complessità, perché lo spettatore, nel seguire lo svolgimento, sia naturalmente invogliato a sbrogliare la matassa, a farsi agente segreto super partes nell’occulta guerra fra potenze. Per questo diciamo: occorre complessità. Perché se questa manca, i risultati attesi possono essere, all’incirca, un paio: o ci si trova davanti un film noioso – ma generalmente senza pretese – perché immediatamente decifrabile; o chi ha in mano la sceneggiatura decide di mischiare le carte in tavola finché il materiale narrativo diventa non complesso, ma solamente complicato (una distinzione che per questo film ci pare doverosa). Ecco allora correre in soccorso della storia l’affannosa regia di Berg, che ha un’equivalenza in immagini con ciò che a parole si direbbe «affabulatorio»: frantuma ogni parvenza di unità narrativa, anzi esplode anche le unità minime del racconto; non solo le sequenze, ma anche ogni singola scena, ogni singola situazione è vittima di un accavallarsi scriteriato di inquadrature e stacchi in un surplus visual saturo, come dettati dalla volontà di andare sopra le righe. Siamo forse davanti a della “sperimentazione”, dicevamo prima?
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Mark Wahlberg in Red Zone- 22 miglia di fuoco
Insomma: se la risposta è sì, ci sembra che però manchi il risultato, e cioè almeno un barlume di effettiva innovazione. Chissà se fra trent’anni, poi, Red Zone non sarà preso a prodromico manifesto di un nuovissimo cinema action. Per ora, però, si può dire che non abbia chissà quali meriti. Esteticamente, si è già detto tutto: la disperata fuga (22 miglia in 38 minuti) per la “salvezza” dell’informatore – Iko Uwais, il protagonista del film che tutti vogliono morto, difeso dagli agenti segreti Mark Wahlberg e da Lauren Cohan, con John Malkovich sullo sfondo – è un po’ una versione live action di un qualsiasi videogioco (iper)violento in survival mode, con ambientazione di guerra suburbana. Per quanto riguarda i contenuti: informatori e intelligence, ambienti dove nessuno è ciò che sembra, ci sono dall’alba dei tempi (moderni), e non bastano dei protagonisti molto caratterizzati (da QI stellari o da serissimi problemi personali) a ridisegnare un canone. Un po’ più moderna, anche se certamente non nuova, è la rappresentazione di una “guerra fredda” specialmente tecnologica: le truppe di terra sono supportate costantemente da occhi onniscienti, fra hacker, informatici, droni, satelliti – e per inciso, la moltiplicazione di sguardi di questi ultimi sono forse la cosa più inquietante e sincera dell’intero film. Anche in questo caso, però, l’intero impianto “cyber” non convince appieno: se è vero che la produzione ha molto investito perché ogni protocollo d’azione, ogni dettaglio informatico, fosse veritiero, sulla base di una effettiva prassi oggi in uso, è anche vero che l’intervento sacrosanto di elementi di fantasia, seppur ridotti al minimo – e peraltro necessari in un cinema di questo genere – finisce per sortire l’effetto di un iperrealismo un po’ ridicolo, che da l’impressione di un impianto più posticcio che credibile.