MORTO TRA UNA SETTIMANA (o ti ridiamo i soldi), di Tom Edmunds – Recensione

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Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi),
Tom Wilkinson in Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi)
Morto tra una settimana o ti ridiamo i soldi recensione
Tom Wilkinson in Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi)
Nel suo lavoro Leslie (Tom Wilkinson) riesce a rendere transitivo l’intransitivo pronominale  “suicidarsi”: interviene ponendo fine alla vita di chi è stanco, appunto, di vivere, ovviando – per quanto possibile – a ripensamenti, reali incapacità di darsi la fine e naturali e sacrosante insorgenze di istinti di sopravvivenza. Leslie è, insomma, un killer professionista che, per scelta o per savoir faire, uccide a contratto solo chi, in effetti, vuole la morte. Anche un assassino però ha i suoi problemi: una moglie che lo vuole tutto per sé, l’horror vacui della pensione, un lavoro (regolato, persino, da un’agenzia che di segreto e oscuro non sembra avere niente) a cui si sente legatissimo e per il quale nutre una curiosa etica che gli procura solo noie: a quanto pare non ci sono più i killer di un tempo, gentiluomini come lui, rispettosi delle volontà e della dignità della morte altrui (poco conta poi, nel film, se di fatto si tratta di operazioni criminali). E poi c’è William (Aneurin Barnard), giovane scrittore che nessun editore vuole pubblicare, solo al mondo o quasi, disoccupato e squattrinato. William ha tutta la vita davanti, ma crede che la miseria in cui versa non sia solo una fase transitoria: così ingaggia Leslie per farla finita, dopo svariati tentativi di suicidio mai compiuti fino in fondo, o mai andati a segno. Dopo aver siglato il fatal contratto, però, il destino, “in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada”, si mette di traverso, beffardo eppure, per una volta, positivo: William riceve un’offerta editoriale, si innamora del suo agente (Freya Mavor) e, ovviamente, riacquista fiducia nella vita. Come scindere, stando così le cose, l’inscindibile patto di morte?
morto tra una settimana
Freya Mavor e Aneurin Barnard in Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi)
In questa commedia dolce-amara di Tom Edmunds il caso gioca un ruolo non indifferente, ma finisce per essere poi, giustamente, il tramite per una affermazione forte della volontà individuale, delle scelte di vita: è il caso che unisce William e la giovane editor Ellie, ed è il caso che pone fine alla vicenda, ancora con una sfumatura di cattiveria. Tuttavia, ciò che nella narrazione conta davvero sono le strade che si decide di percorrere: i tentativi di suicidio del giovane, forse non troppo convinti e comunque rappresentati con troppa leggerezza – pure congeniale alla storia e al genere – sono preambolo per una serie di scorribande per sfuggire alla morte. Sono la rappresentazione iniziale di un immobilismo da cui, con crescente serenità, il giovane scrittore riesce a cavarsi – con l’incoraggiamento, con l’amore, con la forza di crearsi (anche autonomamente) delle prospettive. William sente, a un certo punto, di avere uno scopo, una sensazione mai provata prima, e inattesa: scrivere, amare, e – più specificamente nella graffiante finzione narrativa – sfuggire a un killer che non è più il suo cupio dissolvi ma una minaccia concreta.
Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi),
Tom Wilkinson in Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi)
Si tenta quindi di affrontare con l’arma dell’ironia e della sagacia argomenti su cui una certa prudenza e sensibilità sono d’obbligo, e il risultato a cui si arriva è altalenante: non tanto per l’umorismo, che bene o male funziona egregiamente, salvo qualche passaggio più debole, quanto più per la storia in sé, che si divide fra siparietti criminali con fuga – dove l’azione raramente cede il passo alla noia – e vita privata del killer, mortificato dall’età che avanza, dal pensionamento che preme, dalle faccende della vecchiaia che incombono – un bouquet di situazioni più dolci, patetiche, di humor meno temperato.
I due percorsi, antitetici per contenuti e ritmo, si sposano meno felicemente di quanto si possa pensare, e i vari stacchi dall’uno all’altro alla lunga impediscono, in un certo senso, una crescita generale di tensione, divertimento e, in parte, significato. Proprio quest’ultimo risulta danneggiato, o almeno sfuocato, perché nel procedere della storia, fra una vicenda e l’altra, rischia di sfuggire il focus primario: la chiarezza di intenti, che dovrebbe essere cristallina; e l’efficacia di una morale sul potere affermativo della vita (anch’essa dovrebbe essere cristallina). Ciò accade non perché i risvolti comici (sulla morte) prevalgano, ma perché la storia si affanna di risultare varia, ricca, sempre simpatica a denti stretti, portando tutta la parte del significante molto al di sopra del significato. Così l’incrociarsi dei destini speculari dei due uomini – l’uno senza uno scopo e giovane, l’altro con uno scopo (che potrebbe perdere) e anziano – è interessante solo sulla carta, cioè in ciò che si coglie di intuito nella dissonanza tra i due volti della tristezza e delle relative pacificazioni; ma il reale percorso positivo, con il messaggio che ne consegue, scende in secondo piano vanificando in parte il potenziale del film.