MAGIC IN THE MOONLIGHT, la recensione

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Magic in the moonlight
Woody Allen torna a dirigere una commedia romantica e irriverente con il suo stile ironico, molto spesso pungente, e dipinta con i colori accesi tipici del Sud della Francia.
Stanley Crawford (Colin Firth) è uno scorbutico e spocchioso inglese che fa l’illusionista sotto la falsa identità del cinese Wei Ling Soo.
L’amico Howard (Simon McBurney) lo convince a intraprendere un viaggio in Costa Azzurra per smascherare una sensitivi, Sophie Baker (Emma Stone), che sta imbrogliando la famiglia Catledge. Stanley, attratto da questa sfida e avvezzo al disprezzo per i medium truffatori, parte per questo viaggio.
La situazione, però, non è esattamente come Stanley aveva  immaginato e presto comincerà anche lui a credere nei poteri della giovane ragazza.
Il protagonista incarna tutti gli archetipi dei personaggi maschili di Woody Allen: nevrotici, polemici, depressi e con un’avversione verso il genere umano dettato dalla feroce convinzione di essere superiori agli altri poiché ci si ritiene più intelligenti e, per questo motivo, portatori di una conoscenza “migliore” sui fatti della vita.
“Non ci si sofferma sul semplice odore del fiore, quello lo fanno gli stupidi”; c’è altro di più importante, c’è la sicurezza di una misera e infelice esistenza che conduce inevitabilmente alla morte.
Questa visione pessimista di Stanley viene completamente sovvertita dalla freschezza e genuinità di Sophie che riesce a portare nella sua vita un po’ di felicità. Il rapporto tra i due protagonisti dunque è in perfetto equilibrio poiché, se da un lato troviamo un’apertura da parte di Stanley, dall’altro Sophie, proveniente da una famiglia povera, è emozionata all’idea della sua conoscenza e affascinata dalla sua cultura, riponendo una grande stima e fiducia nei suoi confronti.
Grazie alla giovane, lo scetticismo di Stanley cede il passo ad una fede definitiva e quasi inaspettata, conducendo la pellicola ad una seconda parte dalle sfaccettature meno pessimistiche e di maggiore apertura alle possibilità della vita. La consapevolezza che ci possa essere molto più di quello che si vede, renderà Stanley più ironico e meno sarcastico sulle questioni più “futili e banali” del vivere quotidiano.
All’impeccabile interpretazione di Colin Firth, dal perfetto aplomb britannico, si contrappone una soave e curiosa Emma Stone che fa risaltare il lato più ingenuo del suo personaggio.
Woody Allen sceglie spazi ampi, estesi, vivaci e sono poche le scene girate in interni quasi a voler sottolineare quanto la verità del mondo sia quella al di fuori; una metafora esistenziale nella quale i teatri e le sedute spiritiche, in stanze dalle luci soffuse, sono luoghi di mistificazione, finzione e illusione.
Un film gradevole, leggero, dai buoni sentimenti che accompagna gli spettatori in una narrazione precisa, ricca di parole, musica anni ‘20-’30 a ricordare l’âge d’or  mostrata nel capolavoro Midnight in Paris, e qualche lampo d’umorismo, portando ad un finale in cui, il vero mistero, rimane l’amore, tanto vero, quanto impossibile da spiegare.