la stanza delle meraviglie recensione
La stanza delle meraviglie (2017) di Todd Haynes
Più che un film di Todd Haynes La stanza delle meraviglie va visto come un’opera di Brian Selznick. Lo scrittore, il cui libro su Hugo Cabret ha ispirato il capolavoro di Martin Scorsese, si riconferma maestro nel disegnare mondi caratterizzati dalle emozioni che essi comunicano ai personaggi. Sono luoghi comuni: città, cinema, teatri, che assumono però una connotazione fantastica quando filtrati dagli occhi meravigliati dei bambini. Questo sentimento di stupore riesce a sovrastare per gran parte la raffinatezza autoriale di Haynes. Sebbene il tema dell’identità sia nelle sue corde, così come le componenti visive scisse tra i colori caldi e il bianco e nero, il regista fa un passo indietro e scompare dietro agli eventi. 
Rose e Ben vivono lontani, sebbene in luoghi molto vicini. Li separano infatti 50 anni. Rose è una ragazza del 1927, che colleziona articoli di giornale riguardanti una misteriosa attrice. Un giorno decide di scappare di casa verso una meta misteriosa ma, non avendo l’udito, il viaggio potrebbe rivelarsi quanto mai pericoloso. Anche Ben ha perso l’udito, non per cause naturali ma in seguito a un incidente. Il ritrovamento di un antico biglietto è il pretesto per intraprendere un viaggio alla ricerca di ciò che ha perduto da tempo.
Scoprire quali siano le tangenze tra queste due storie è il principale motore dell’interesse verso il film, ma non ne è affatto il cuore. Il centro memorabile de La stanza delle meraviglie è il gioco interpretativo, praticato attraverso il montaggio, tra i differenti punti di vista. Uno stesso evento viene osservato da Rose e Ben, una ragazza e un ragazzo, a 50 anni di distanza. L’arrivo nella grande città, la fuga dagli adulti, sono tutti luoghi comuni del genere, che trovano qui una nuova freschezza. I due protagonisti sembrano fianco a fianco, accostati dal montaggio parallelo che avvicina due eventi lontani dal tempo donando loro un significato tutto nuovo. Lo stile di Selznick è quanto mai visivo, l’ossatura intera del film parla per immagini e questo lo rende potentissimo sotto il profilo dell’espressione artistica. 
La stanza delle meraviglie
Millicent Simmonds in Wonderstruck – La stanza delle meraviglie (2017)
Purtroppo Todd Haynes (Carol) fatica a condurre le due linee di trama con uguale efficacia. La storia di Rose, interpretata da una magnifica Oakes Fegkey, è un sentito omaggio al cinema muto. Si alternano suggestioni, riferimenti (le ombre lunghe di Murnau, per dirne una) rielaborate in chiave moderna. Ben invece è più convenzionale: poco visivo e troppo parlato, classico nella misura in cui si appoggia a una visione stereotipata senza uscire dal seminato. Le sue emozioni sono scritte, letteralmente, su un foglio e mostrate a schermo intero. Rose, invece, parla con gli occhi.
Quando però La stanza delle meraviglie deve tirare le somme, facendo convergere le linee di trama e risolvendo il mistero, il tutto perde di intensità. Haynes non conquista emotivamente come avrebbe dovuto, si perde in un terzo atto troppo lungo e involuto che sacrifica il calore delle emozioni all’esercizio di stile. La stanza delle meraviglie non riesce a centrare l’ultimo bersaglio, quello decisivo per diventare memorabile. Haynes costruisce il crescendo emotivo, ma se ne distacca. Chiude con precisione, ma senza amare ciò che sta filmando. È la tentazione della velleità autoriale che si realizza, lo stile che travalica la forma e diventa artificiale. Questo è forse l’unico vero inciampo, ma pesa molto nell’equilibrio generale e rende La stanza delle meraviglie un ottimo film che, però, non graffia.