INSIDIOUS 3 – L’Inizio, la recensione dell’horror di Leigh Whannell

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INSIDIOUS 3
Come si suol dire: “buona la prima” per l’esordiente Leigh Whannell, che debutta alla regia con Insidious 3 dopo anni di praticantato nel mondo del cinema.
Sceneggiatore, attore, collaboratore ed amico di James Wan (qui produttore), antesignano dell’horror contemporaneo, il poliedrico Whannell è riuscito a generare al suo esordio dietro la macchina da presa un lungometraggio al di sopra delle aspettative, decisamente ricco di suggestioni e a tratti avvolto da tensione e mistero. La sua passione smodata per il cinema dell’orrore degli anni ’70-’80, di matrice classica e legata a un certo tipo di maestranza ‘old school’, è evidente nella cifra espressiva e nella rappresentazione.
Whannell strizza l’occhio a Shining, disseminando immagini che omaggiano il lungo corridoio e l’ascensore del capolavoro di Stanley Kubrick, e ponendo l’accento sulla numerologia delle porte.

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Prequel del film d’esordio del franchise, Insidious 3 è un horror ermetico, spiritualmente ‘occulto’, che fonda le sue radici sul concetto di trascendenza e sul fenomeno del paranormale, trovando nel personaggio della medium, interpretata da un’esperta Lil Shaye (alla sua terza apparizione nella saga), una conciliatrice super-partes tra le vite terrene e le anime dell’aldilà. Occorre tornare indietro nel tempo per ordinare cronologicamente i fatti narrati e le relative pellicole: a pochi anni della persecuzione di un pericoloso demone nei confronti di Dalton Lambert in Insidious, la giovane Quinn Brenner (Stefanie Scott) decide di rivolgersi alla sensitiva Elise Rainier (Lin Shaye) per cercare di stabilire un contatto con la madre scomparsa l’anno prima (anche se il dramma della perdita è una ferita ancora aperta). Durante il contatto con l’altrove la psichica si accorge che la giovane è il bersaglio di una pericolosa entità soprannaturale che la tormenta irrimediabilmente. Con l’aiuto del padre della vittima, Sean (Dermot Mulroney), e degli improbabili acchiappafantasmi  Specs (Leigh Whannell) e Tucker (Angus Sampson), Elise con le sue inclinazioni mistiche tenta di scacciare per sempre il maligno. Tra collegamenti con personaggi visti nei precedenti lungometraggi e un’ossatura narrativa lineare che cerca di mantenere le peculiarità canoniche della serie, Whannell sviluppa prevalentemente l’azione all’interno del palazzo dove abitano i Brenner, e in particolare nella camera di Quinn presa di mira da L’Uomo Che Non Respira. Il suo intento è quello di creare, grazie al fattore ‘evocazione’, un senso di inquietudine e claustrofobia tipici del genere, elementi necessari per condurre il racconto nella giusta direzione. Ma il tentativo si affievolisce come il ritmo di un pendolo a movimento discontinuo: dopo il pathos iniziale e una buona dose di situazioni azzeccate il film si affievolisce nella seconda parte portando lo spettatore ad assistere a sequenze che mantengono la frequenza cardiaca a un livello di normalità.
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Attraverso una fotografia sfocata e un’atmosfera tra il cupo e il grottesco, il regista preserva quanto di positivo prodotto insieme a James Wan (simpatico nel suo cammeo in teatro) dimostrando coraggio e determinazione nella sua prima gestione individuale. Dalle oneste interpretazioni dei protagonisti agli omaggi a celebri cult del passato (Masters of the Universe e Casper, ma anche il romanzo Clockwork Orange di Anthony Burgess), il film rappresenta nel complesso un valido tentativo di generare un horror in grado di impressione e divertire, nonostante alcune sbavature nei dialoghi che risultano talvolta sterili e stereotipati. Gli ammiccamenti ai b-movie, mescolati alle inquadrature in found footage che ricordano Paranormal Activity (il cui produttore Oren Peli è lo stesso di Insidious 3) donano alla pellicola uno spirito ironico capace di generare un legame empatico con lo spettatore, in un finale aperto ad ulteriori evoluzioni che lascia spazio ad un futuro prosieguo del franchise.