Il Diritto di Uccidere - Photo: courtesy of Teodora Film
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Una squadra di soldati ‘antiterrorismo’, sotto gli ordini del colonnello Katherine Powell (Helen Mirren), viene guidata in una missione per catturare una cittadina inglese affiliata al fondamentalismo islamico di Al Shaabab. L’esercito, per mezzo di droni, scopre i piani dei terroristi innescando una diatriba politico-militare tra le forze sul campo e le alte cariche dello Stato. La situazione precipiterà drammaticamente e inizierà un gioco di responsabilità sulla decisione di sferrare un attacco mortale e di quelli che potrebbero essere i danni collaterali.
Gli eventi raccontati incalzano sullo schermo ma con i toni equilibrati tipici di un’opera teatrale in cui l’azione è sostituita da parole e lunghe pause drammatiche che lasciano lo spettatore con un costante senso di tensione e agitazione. Il Diritto di Uccidere prende in prestito i canoni del cinema classico inserendo nella storia ‘elementi’ attuali della “guerra moderna”: i droni, gli occhi nel cielo del titolo inglese (Eye in the sky) che scrutano ogni centimetro di intimità e spazio personale.
Attraverso la sorveglianza aerea e la possibilità di entrare dentro le case, il film innesca un dialogo etico e morale non solo sulle responsabilità delle decisioni e sulle sorti delle vite umane ma anche sui punti di vista messi in campo; da un lato quello militare che vede nell’ipotesi di fermare un atto terroristico il compimento di una missione che potrebbe comportare la perdita di innocenti e dall’altro quello politico preoccupato, invece, di “peccare di superficialità” di fronte all’opinione pubblica.
Il Diritto di Uccidere - Photo: courtesy of Teodora Film
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È perciò nella figura della bambina che viene racchiuso il significato dell’innocente manovrato, mosso da fili invisibili da coloro che detengono le redini del potere ma anche di chi semina il terrore.
Gavin Hood mostra, quindi, un cinema che si presta al dibattito riuscendo nel suo intento anche grazie a due interpreti straordinari: Helen Mirren, che porta sullo schermo un colonnello freddo e consapevole della brutalità delle scelte prese in guerra, e il compianto Alan Rickman, che nella sua ultima performance veste i panni di un generale conteso tra il senso di giustizia e il “mormorio politico” pur sempre mantenendo un aplomb britannico.
La pellicola, in definitiva, dimostra di saper toccare le corde emotive, etiche e comportamentali, facendo domandare al pubblico quale sarebbe stata la sua scelta. Nonostante un epilogo ‘artificioso’, il regista sudafricano costruisce meticolosamente una vicenda ricca di sensazioni e nervi a fior di pelle, forte empatia e una profonda ansia sulle conseguenze dei fatti mostrati. Intenso.

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