Venezia 73: BRIMSTONE, il western neerlandese di Martin Koolhoven

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Brimstone - Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Brimstone - Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Brimstone - Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Brimstone – Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Il western è una frontiera senza confine.
Nonostante l’eclissi produttiva alla fine degli ‘anni ’70, che ha diradato il genere in termini numerici e di pellicole, l’epopea artistica del vecchio Ovest, esportata in Europa alla fine dell’800 dal prode Buffalo Bill nello spettacolo teatrale Buffalo Bill ‘s Wild West, ha vissuto momenti esaltanti grazie alla sua capacità di magnetizzare lo sguardo degli spettatori e a fidelizzarli empaticamente.
Il fascino e l’attrattiva esercitati dal western sul pubblico sono ancora oggi sinonimo di attaccamento e legame ad un’epoca storica, a una via illuminante del cinema che ha portato alla nascita di miti e leggende.
Da John Ford a Sam Peckinpah ai demiurghi italici Leone, Corbucci, Sollima (la triade dei Sergio), Martin Koolhoven metabolizza la lezione e costruisce un film diviso in quattro atti, titolati secondo una nomenclatura che rimanda ai testi sacri (Apocalisse, Genesi, Esodo, Castigo). Attraverso un processo di scrittura, lubrificata nella forma e attenta alla sostanza, Brimstone è la testimonianza concreta di quanto il cinema contemporaneo viva di una continua trasversalità di generi: una commistione totale che fonde western, dramma religioso, horror macabro, romanzo ancestrale e strizza l’occhio a Lo Straniero Senza Nome e allo stile di Enzo G. Castellari (per diretta ammissione del filmmaker).
Una leggendaria impresa di sopravvivenza solca i confini del selvaggio West, dove dalle sue lande desolate affiora un racconto di grande resistenza e femminilità contro la brutalità umana. Liz è una donna coraggiosa e di cuore che inizia ad essere perseguitata da un accanito Predicatore (Guy Pearce), il quale la tallona come un’ombra per tutta la sua esistenza. In un inferno terrestre privo di regole, Liz conoscerà paura e morte ma non si arrenderà. Armata di uno spirito anti-remissivo, la giovane escogiterà la sua vendetta.
Brimstone - Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Brimstone – Photo: courtesy of La Biennale di Venezia
Brimstone è un western neerlandese e manicheista, atipico sotto certi aspetti ma di autorevole impatto visivo ed emotivo. Il cineasta olandese non cataloga le immagini secondo un approccio didascalico e manierista ma cerca di orientarsi parallelamente tra le storie per legarle con un nesso logico, funzionale alla narrazione e suggestivo alla visione. La pellicola inquadra la tensione e la rilascia gradualmente, svelando una parabola dai riferimenti cristologici e luciferini con una conduzione registica che eleva il sadismo e le più macabre torture ad emblema del sacrificio.
Viscerale e crudele, estremo e feroce, Brimstone cavalca il sentiero di un classico revenge movie che trova nei due protagonisti e nell’eclettismo maniacale del regista i suoi punti di forza. Dilaniato dal passato e tormentato dal presente, il personaggio di Dakota Fanning (che sembra uscita da un quadro di Jan Vermeer) è circondato da un’aura pura e candida che domina il suo sguardo, quasi come a voler ricalcare la sorella Elle, angelica e verginale protagonista del perturbante The Neon Demon di Nicolas Winding Refn. Un aspetto lapalissiano che emerge dal film è la figura mefistofelica del reverendo interpretato da Guy Pearce, un ‘pastore’ spietato che firma un patto con Satana e ne esalta velatamente l’immagine, macchiandosi di atrocità abominevoli e del sangue delle sue vittime in nome di un praticantato religioso che impartisce con massimalismo ai fedeli. Il magistero della Chiesa viene sconsacrato dall’uomo, sfregiato nel corpo e nell’anima, e dirottato nella sua forma più estrema. Soggiogato dall’onnipotenza terrena e animato dal culto per la flagellazione, il Predicatore porta avanti con ostinazione la sua rivalsa diventando la nemesi di sé stesso e guadagnandosi lo scettro di personalità più corrotta e meglio tratteggiata dell’opera.
La ricerca per l’estetica e i movimenti di macchina riprendono la violenza in ogni prospettiva, spingendosi fino in fondo anche a costo di farla apparire gratuita. Koolhoven abbatte la via dell’edulcorazione per esporre con convinzione un disegno ‘granguignolesco’ nel quale trionfano torture, simbolismi teologici e derive feticiste.
Un film destinato a dividere il grande pubblico e al tempo stesso ad essere considerato una rivelazione della 73. Mostra di Venezia. Sorprendente.
Andrea Rurali

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