BENVENUTI A MARWEN, la recensione del film di Robert Zemeckis

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Steve Carell in Benvenuti to Marwen (2018)
Per il suo ultimo film Robert Zemeckis riprende le fila dalla vera storia dell’artista americano Mark Hogancamp, già raccontata nel 2010 nel noto documentario Marwencol di Jeff Malmberg: una storia di riscatto da un evento traumatico di eccezionale violenza, un’aggressione fisica che, oltre a rubare all’uomo salute fisica e gran parte della memoria, ha lasciato anche severe ripercussioni – stress post-traumatico, fobie, dipendenza da oppiacei, profonda insicurezza. Al riparo dalla vita quotidiana, c’è solo un mondo in cui Hogencamp (Steve Carell) si sente, almeno in parte, al sicuro: a Marwen, cittadina immaginaria ricostruita, in miniatura e con dovizia di particolari, nel giardino dietro la sua casa.
Se quattro mura sono la sua prigione – lasciata a malavoglia per poche, spesso circospette o fallimentari interazioni sociali – per “Hogie” Marwen è il luogo di riscatto: aiutato da sole donne – riproduzione in chiave eroica e sexy delle donne della sua vita, dagli amori lontani a chi gli ha prestato soccorso durante la riabilitazione – egli, nei panni di un valoroso soldato americano, si sente padrone di sé stesso. Benché non manchino, in questo mondo altro, gli echi violentissimi e trasfigurati della violenza subita: l’immaginaria cittadina belga è preda costante dei soprusi di vanagloriosi nazisti, pronti a tutto pur di turbare quei piccoli attimi di serenità tanto desiderati dal capitano Hogie quanto dall’artista in carne e ossa. E nel minuto mondo non manca, sotto le vesti di una strega malvagia, lo spettro della rovinosa dipendenza da antidolorifici e antidepressivi.

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In effetti, Marwen non è propriamente la panacea di tutti i mali di Hogencamp. Certamente, è in parte un aiuto terapeutico, una valvola di sfogo dall’enorme potenzialità artistica che – di fatto – è stata poi riconosciuta. Combattere una difficile battaglia del cui dolore allo spettatore è dato solo a immaginare è cosa più complessa di quanto si possa rappresentare in un film che spinge molto sull’effetto fantastico, pure con un’attenzione lodevole verso il lato emozionale e umano.
L’impressione è che gli aspetti fantastici appianino forse un po’ troppo le reali difficoltà emotive che un percorso di ritorno alla vita possono costare. A sostegno di quest’impressione, il regista sceglie di dare un aspetto liquido ai due mondi, reale e immaginario, e dunque live action e CGI, eliminando progressivamente molti stacchi percepibili. È però questo, forse, un rischio di distacco, laddove l’esperienza cinematografica guadagna in andatura, sicura e fruibile, mentre quella partecipativa, relativa alla vita vera, che dovrebbe più facilmente smuovere a riflessione, è ostacolata da un fluire reale-immaginario che diventa spesso tutt’uno, senza una reale presa, in un tentativo di astrazione che rischia di ripetersi uguale a se stesso.
Il mezzo digitale quindi finisce per prendere il sopravvento visivo – con qualche strizzatina d’occhio alla carriera registica di Zemeckis godibile ma fuori posto – anziché veicolare al meglio lo spettro emozionale di una vicenda già di per sé altamente coinvolgente, e attuale nelle tematiche.

La liberazione dal male che affligge Hogencamp, alla fine, non corrisponde alla condanna dei suoi brutali assalitori, quanto più a una fugace consapevolezza di non poter reiterare la paura e mortificazione che lo affliggono, e – inoltre – a non dover più nascondere tendenze feticistiche e possibili dubbi circa la propria sessualità che furono causa del pestaggio. Così l’irta strada di ripresa diventa a un passo dalla fine un semplice sentiero, complice un romantico e infantile amore non corrisposto. Una presa di coscienza e di accettazione tale avrebbe forse meritato più spazio, anche laddove non si parla più di cronaca ma di elementi del tutto personali e intimi (su cui il film ad alterni momenti ritorna). Realtà e finzione infatti sono sì consonanti ad una “guarigione” affermativa, ma in una impennata tuttavia inverosimile: quasi che, concentrandosi a lungo sul mondo surrogato della realtà, per quanto terapeutico, si sia presa tardivamente consapevolezza di doversi concentrare in modo più esclusivo sull’uomo, quello in carne e ossa. Quell’uomo che della propria incredibile fantasia ha fatto un’arma pacifica contro i soprusi, uno strumento per risollevarsi e per diventare esemplare: una fantasia che il cinema di Zemeckis, questa volta, non è riuscito – pur con notevole sforzo immaginifico – a contenere.