La terra dell'abbastanza intervista
L’anteprima milanese de La terra dell’abbastanza con i due registi Fabio e Damiano D’innocenzo
In occasione della presentazione del film La Terra dell’Abbastanza
all’Anteo Palazzo del Cinema di Milano, a
bbiamo avuto il piacere di intervistare i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo.
C’è una cosa che sorprende dei fratelli D’Innocenzo: è il loro entusiasmo, l’energia che i due registi trasmettono con le loro parole. Non traspare l’emozione, l’esaltazione, ma il colloquio viene orientato dal sincero amore per il cinema. Sembra di dialogare con due spettatori, non con due autori: giovani ragazzi che osservano il loro stesso film con la voglia di godere dell’esperienza, come se quelle immagini le avessero girate per loro stessi.
La terra dell’abbastanza, questo il titolo della loro opera prima, è un film carico di amore per il mezzo cinematografico e per i luoghi che racconta, una storia di amicizia in cui Fabio e Damiano D’Innocenzo hanno messo in campo tutto ciò che avevano, con passione e dedizione. Sono stati definiti due autori venuti dal nulla, ma la loro città natale, Tor Bella Monaca, e più in generale la periferia romana, sembra il cuore pulsante, la Hollywood carica di vita, che ispira il loro cinema. Non c’è nulla di autobiografico ne La terra dell’abbastanza, eppure i fotogrammi sono intrisi di realtà. Prima di iniziare a dialogare con loro, è stato quindi necessario fare una piccola provocazione.
La terra dell'abbastanza
Il poster del film La terra dell’abbastanza
Inizio subito con il dire che non credo che La terra dell’abbastanza sia la vostra opera prima. Sembra invece un lavoro di due registi già maturi. Come rispondete a queste “accuse”?
Fabio: Ci hai scoperto, non l’abbiamo girato noi! (ridono).  No, no è un’opera prima e a tratti si vede, ci sono alcune componenti naïf che però non volevamo perdere, anzi, di cui andiamo fieri. Non abbiamo fatto scuole di cinema proprio per questo motivo: non volevamo entrare in dei binari prestabiliti che poi ti costringono a fare sempre lo stesso film italiano già visto mille volte. Si sente che è un’opera prima anche dalla gioia. Se ci pensi è un film molto triste, ma si ride anche tanto. Questo perché sul set ci divertivamo molto, ed è stata una cosa bellissima, lavoravamo con il sorriso e credo si veda dalle scene. È un’opera prima che va fiera di essere tale. 
Nel cinema conosciamo un sacco di coppie di autori, ma ognuna è destinata a rispondere in modo diverso alla domanda: come si lavora in due sul set?
Fabio: Vogliamo dare un consiglio a chi vuole fare cinema: trovatevi un fratello o una sorella perché lavorare sul set in due è stupendo. Permette di avere il doppio del tempo. Noi abbiamo girato il film in 29 giorni, ma è come se fossero stati 58. Avevamo tempo, essendo in due, di andare da ogni capo reparto e parlare della scena in dettaglio. 
E quanto spesso litigate?
Fabio: Spessissimo, nella vita litighiamo spessissimo. Sul set no, abbiamo un’affinità di gusto pressoché totale. Anche perché dopo avere cercato per sei anni i finanziamenti per fare il film vai sul set e non litighi. Ti abbracci, ridi, parli d’altro, ma non ti viene da litigare.
Parliamo di cinema: dimmi tre o quattro film che chi vuole raccontare una storia deve assolutamente vedere per trovare l’ispirazione.
Damiano: Provo a dirtene quattro che non si assomigliano: Billy Wilder L’appartamento, capolavoro; Takeshi Kitano, Sonatine, strepitoso; ovviamente Elephant Man di David Lynch. Un film che ti cambia la vita: Funeral Parade of Roses di Toshio Matsumoto. (Si illuminano gli occhi) Pensa che è del ’69, Kubrick fece Arancia Meccanica nel ’71 e lo plagiò dall’inizio alla fine. Lo vedrai! Un altro autore fondamentale è Sam Peckinpah: se uno vuole fare cinema, come grammatica, guardi lui. Non sbaglia mai un verbo, è eccezionale.
la terra dell'abbastanza
Avete un modo di stare attaccati ai personaggi particolarissimo: fate inquadrature master larghissime e poi andate subito sui dettagli…
Damiano: Vero! Master: campo larghissimo. Poi campo strettissimo. A noi non interessa quello che c’è “tra” una cosa e l’altra, gli avvicinamenti lenti. Il più o meno non è importante nel nostro cinema, bisogna andare dritto al sodo.
Tra le tante ispirazioni che avete avuto può esserci anche un Refn del primo periodo? Quello di Pusher intendo.
Damiano: Refn è un autore molto consapevole di quello che fa, credo che i suoi film, anche quelli meno riusciti come Solo Dio Perdona, sprizzino l’amore per il cinema. Questo sicuramente l’abbiamo in comune. Guarda anche Guadagnino, il modo in cui si diverte a fare cinema è tangibile dalle inquadrature. Questa è una condizione essenziale per tutti coloro che vogliono fare film.
Nei dialoghi c’è un realismo perfetto. Come avete lavorato sul testo?
Damiano: Hai fatto prima la battuta sull’opera prima. È interessante perché, a livello di sceneggiatura questo non è il nostro primo lavoro. Noi abbiamo fatto tantissima esperienza come ghost writer. Il lavoro di sceneggiatore è basato su delle regole, solo se le conosci a fondo le puoi eludere. Abbiamo imparato cosa mettere e cosa eliminare dal testo attraverso molta pratica. Sulla sceneggiatura siamo molto più formati che a livello registico. Nella direzione del film abbiamo imparato guardando i grandi autori, nella scrittura ci hanno formato i nostri grandi errori.
È sorprendente anche l’ironia graffiante dei dialoghi…
Damiano: Quella è la mancia, il premio, per lo spettatore che ha seguito anche le scene più difficili e drammatiche. E poi sai, più un territorio è disgraziato, più i suoi abitanti sviluppano un loro umorismo contro le avversità. Un umorismo nero, si intende.